Sir Arthur Conan Doyle, scrittore prolifico, appassionato di spiritismo e storia militare, persona schiva e severa creò questo investigatore dai tratti caratteriali spigolosi e dalla mente affilata come un divertissement. Il romanzo – che passò quasi sotto silenzio – era “Uno studio in rosso”. L’anno, il 1887. Per il personaggio dell’investigatore più famoso che la storia della letteratura abbia mai conosciuto, Doyle si ispirò alla figura di un medico a lui contemporaneo: Joseph Bell. Quest’ultimo fu un chirurgo che adottò un approccio innovativo nei confronti degli studi scientifici, basandosi su una rigorosa osservazione di cause ed effetti e applicando a essi il metodo scientifico. Furono, però, le opere successive a consacrare Conan Doyle e la sua creatura a un successo che continua ancora oggi, a oltre un secolo di distanza. Sherlock Holmes è “vissuto” – dal punto di vista letterario – dal 1887 al 1927, data di pubblicazione del “Taccuino di Sherlock Holmes”, una raccolta di racconti; Doyle, però, schiacciato dalla fama del personaggio ne descrisse la morte per mano del suo nemico principale, il professor James Moriarty in “L’ultima avventura” (pubblicato nel 1893): un racconto ambientato presso le cascate di Reichenbach, dall’incipit carico di un dolore intenso. L’autore desiderava affrancarsi dalla schiavitù che la fortuna di Sherlock Holmes gli aveva comminato. Desiderava scrivere altri romanzi, dedicarsi ad altri – e più nobili – generi letterari.
“Il suo sguardo era acuto e penetrante; e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un'aria vigile e decisa. Il mento era prominente e squadrato, tipico dell'uomo d'azione. Le mani, invariabilmente macchiate d'inchiostro e di scoloriture provocate dagli acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato, come ebbi spesso occasione di notare quando lo osservavo maneggiare i fragili strumenti della sua filosofia.”Il passaggio ivi citato, tratto da “Uno studio in rosso”, è la prima descrizione fisica di Holmes. Un uomo sulla trentina, che ha già delle facoltà deduttive e conoscenze fuori dal comune alternate a un’ignoranza, quasi imbarazzante, su alcune materie. Di queste lacune Holmes non si vergogna, anzi: le aggira aggrappandosi a ciò che già conosce, che può studiare, ma soprattutto a ciò di cui si fida di più, ossia, i suoi sensi. Il lettore si affeziona a questa figura e la vede crescere, maturare, persino invecchiare, senza perdere nulla del suo acume e della sua spregiudicatezza. Con il tempo all’esperienza si aggiungono una pietas profonda e un’umanità impregnata di comprensione. Non viene intaccato in alcun modo il suo senso di giustizia o la profonda aderenza a leggi morali che Holmes ha ben chiare dentro di sé. Logica, scientismo, una spiccata ed eccezionale capacità di osservazione, rifiuto delle emozioni che possono contaminare il ragionamento, si mescolano con un’ironia che spesso sfocia in un sarcasmo pungente. Queste sono le cifre distintive da cui discendono personaggi come Nero Wolfe, Miss Marple, Hercule Poirot, fino ad arrivare a Grissom & affini di CSI.
Allo stesso modo in cui ci troviamo di fronte ad un graduale cambiamento del suo protagonista, è possibile cogliere anche una profonda evoluzione nella scrittura dell’autore. Se le prime opere sono ridondanti, nei racconti e nei romanzi successivi al 1890 la scrittura di Conan Doyle si arricchisce di nuovi spunti: si pone una maggiore attenzione all’ambientazione e agli scenari, o ai mutamenti del contesto storico; i personaggi secondari vengono cesellati con cura; vi sono sprazzi di vita quotidiana che riecheggiano, almeno in alcuni passaggi, un altro grande della letteratura inglese: Dickens.
Guardando in una prospettiva storica viene da chiedersi che senso ha nella nostra contemporaneità la figura di Sherlock Holmes, soprattutto, se si tiene in considerazione quella che fu la crisi del Positivismo?
Mettendo da parte la versione vittoriana e vagamente steampunk di Guy Ritchie, oggi vi parliamo di Sherlock, la serie-tv prodotta dalla BBC One, andata in onda nel 2011 (prima serie) e nel gennaio 2012 (seconda serie). Il fandom è esploso e la serie è diventata, in pochissimo tempo, oggetto di fan fiction, video e fan art; su Tumblr è un fiorire di post dedicati alla serie e anche Facebook non ne è immune. Anzi.
Lo Sherlock Holmes delineato dai creatori della serie, Mark Gatiss e Steven Moffatt – sceneggiatori di alcune delle serie di maggior successo in Gran Bretagna e grandi appassionati dell’opera omnia di Conan Doyle, da cui hanno attinto a piene mani – si definisce un “sociopatico altamente funzionale”. In poche parole: un motore lanciato fuori giri che riesce a vedere quelle connessioni, quei legami logici che il resto degli esseri umani non coglie. Ma non è una persona stimata o apprezzata, così come accadeva nel mondo vittoriano, anzi: la gente lo tiene a distanza, infastidita dalla sua supponenza e dalle doti di deduzione assolutamente fuori dal comune. “Piss off”, è quello che dice la maggioranza delle persone, come ammette lo stesso Holmes nel primo incontro con John Watson, il suo coinquilino al numero 221 B di Baker Street. L’indirizzo, così come il violino, la sua passione smodata per la nicotina e le sigarette rimangono immutati, segno di una grande fedeltà al canon; altresì, lo Sherlock del XXI secolo ha un legame amicale molto forte con John (che non è più apostrofato Watson). Quest’ultimo rimane un medico militare reduce dell’Afghanistan (ed è curioso notare che negli ultimi centovent’anni, almeno da questo punto di vista, non sia cambiato nulla: l’Afghanistan è sempre al centro dei maneggi delle potenze occidentali), ma ha una sorella lesbica, un blog al posto del taccuino e non è più la quieta, rassicurante persona che, a suo tempo, Conan Doyle ci aveva descritto. È emotivo e appassionato, con un debole per le belle ragazze e capace di zittire il suo spigoloso coinquilino con una sola occhiata quando questi si trova a sogghignare su una scena del delitto.
Veniamo, or dunque, all’analisi della produzione televisiva. Nella prima serie troviamo Sherlock (interpretato da Benedict Cumberbatch) che tiene il mondo a distanza, dimostrando in più occasioni un’imperturbabilità che rasenta l’insensibilità. Ha un fratello che lavora per il Governo Inglese, Mycroft (è Mark Gatiss a dare il suo volto: oltre che sceneggiatore, è anche attore) con cui ha un rapporto conflittuale; una padrona di casa che non è una governante, Mrs. Hudson; una impacciata anatomopatologa, Molly Hooper, deliziosamente naif. C’è l’ispettore Lestrade, che stima Holmes ma non sopporta il suo sarcasmo; ma soprattutto c’è Jim Moriarty: il ragno, il “consulting criminal”. Figura speculare e opposta a Sherlock. Due anime affini, dotate di un’intelligenza sopraffina, annoiate dall’ovvietà degli esseri umani. Il loro è un legame osmotico: l’uno non può vivere senza l’altro, ma l’uno vuole distruggere l’altro. Lo story arc che lega Sherlock a Moriarty inizia nella prima puntata della season premiere, A study in pink – rivisitazione del primo romanzo di Conan Doyle – e termina (forse) nella terza, palpitante, puntata della seconda serie. La prima stagione, tuttavia, prosegue con The Blind Banker, ambientato nel mondo del contrabbando, per continuare con l’adrenalinico The great Game. È questo il momento del grande showdown tra Holmes e Moriarty, è il momento in cui, per la prima volta, le emozioni trapelano nel viso di ghiaccio dell’algido detective. Una resa dei conti che culmina nell’ultimo episodio della seconda stagione: The Reichenbach falls. In essa, lo spettatore avverte in maniera potente il grande cambiamento che il protagonista ha vissuto, a cominciare dall’amicizia con John.
“I’ve no any friends. Just one.”
Sono sempre i sentimenti che prevalgono sul detective e che lo costringono ad agire in maniera lucida e, insieme, generosa fino al sacrificio in The Reichenbach falls, una puntata con un cliffhanger che ha lasciato i fan sconvolti e smaniosi di sapere cosa accadrà. Il dialogo finale tra Sherlock e John è una delle scene più intense che si sia mai vista in una serie televisiva, ed è la chiave di volta per comprendere l’intera stagione.
"Um. Hm. You... you told me once that you weren't a hero. Um. There were times that I didn't even think you were human. But let me tell you this, you were the best man, the most human.... human being that I have ever known, and no one will ever convince me that you told me a lie. And so... there. I was so alone and I owe you so much. [...] Would you do that, just for me? Just stop, just stop this..."Il mito letterario di Sherlock Holmes è stato attualizzato e rivisitato, non tradito (come invece sta accadendo in Elementary, la produzione della Cbs dove Watson è una donna e Sherlock un tossicomane in terapia di riabilitazione. Sic.). Il fatto che i due co-autori siano grandi conoscitori ed estimatori del canon di Conan Doyle ha fatto sì che Sherlock si avvalga delle conoscenze odierne, usando internet, smartphone, laboratori scientifici, nonostante ciò, però, nulla soppianta la sua ferrea logica. Ed è questo che regala ancora emozioni ai fans: il fattore umano. La grande cura nella descrizione delle dinamiche psicologiche che muovono i personaggi rende Sherlock un unicum irripetibile, e una dimostrazione che la rivisitazione di un classico non significa saccheggio indiscriminato ma un omaggio dinamico e intelligente a storie e personaggi che hanno segnato la coscienza letteraria collettiva, regalando loro nuova linfa e nuova passione.