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Da Bologna 2000 ad Alberto Ronchi: mentre “The winter is coming” la cultura si gestisce come il Festivalbar

Creato il 02 dicembre 2013 da Margheritapugliese

di Riccardo Paccosi (*)

Bologna e le politiche culturali, “The winter is coming” l’inverno sta arrivando: quella che segue è una piccola analisi, condita da una breve ricognizione storica, sul rapporto fra Comune di Bologna e produzione culturale del territorio.

L’analisi dell’operato degli altri enti locali – Provincia di Bologna e Regione Emilia-Romagna – porterebbe a valutazioni differenti e richiederebbe un articolo a parte, dunque non può essere affrontata in questa sede.

Il punto di vista qui espresso è deliberatamente parziale e, di conseguenza, non ha alcuna pretesa di esaustività.

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I due significati opposti della parola cultura

Parlare di politica culturale è estremamente complicato. Soprattutto perché non vi è accordo sul significato stesso della parola. Per quelli che – come il sottoscritto – svolgono un mestiere artistico, la cultura è un peculiare settore produttivo e occupazionale. Per la pubblica amministrazione, la medesima parola sta invece a indicare l’insieme degli eventi culturali di cui fruisce la cittadinanza, perlopiù nei mesi di giugno e luglio.

Dunque, la parola “cultura” è oggi interpretata in due modi diversi. I lavoratori della cultura la intendono come produzione, gli amministratori locali come ambito di consumo.

L’esempio di quel che sto dicendo ce lo fornisce, da molti anni, il Comune di Bologna. Alla fine di ogni stagione estiva, l’amministrazione comunale promuove, con toni abbastanza trionfalistici, la pubblicazione dei dati quantitativi relativi alla fruizione degli eventi (l’ultimo è stato pubblicato da poco, ovvero il 4 novembre 2013). Praticamente, il Comune presenta la stessa relazione a consuntivo che potrebbe presentare il direttore di un festival o di un teatro.

Dunque, il problema parte proprio da qui. Esiste una distanza a priori, una divergenza in termini di paradigma amministrativo. Per chi lavora nel settore, i dati sull’afflusso di pubblico agli eventi culturali dovrebbero essere pertinenza dei numerosi operatori privati del settore, sia quelli che operano in collaborazione col  Comune sia quelli che agiscono in autonomia. Il report che i lavoratori del settore si aspetterebbero dall’amministrazione comunale è, invece, di tutt’altra natura. Dovrebbe essere un report, difatti, rispondente alle seguenti domande:

  1. cosa è stato fatto per l’occupazione nel settore?
  2. cosa per agevolare le tante attività imprenditoriali che generano occupazione (ancorché temporanea)?
  3. cos’è stato fatto, infine, in termini di servizi o rete di servizi territoriali per i lavoratori e le imprese della cultura?

È evidente che, da oltre dieci anni, nessuna Giunta Comunale bolognese è stata nelle condizioni di scrivere un report di questo genere. La risposta a queste tre domande, infatti, porterebbe sempre e comunque a dati numerici recanti davanti un bel segno “meno”.

Quello che l’amministrazione comunale non sa

games of2Detto questo, per ciò che concerne la sfera politico-amministrativa non sussiste tanto la malafede, quanto una non conoscenza dell’oggetto. Avendo sia letto che coordinato, per alcuni anni, ricerche sociali sulle condizioni del lavoro nel settore culturale per la Regione Emilia-Romagna, ho difatti potuto constatare l’assenza di strumenti cognitivi presso gli amministratori, proprio sui temi indicati nelle domande precedenti.

Per la precisione, quello che l’amministrazione comunale non conosce – pur essendo state pubblicate numerose ricerche regionali a riguardo – consta dei seguenti nodi sociologici:

  • l’occupazione in ambito creativo/culturale non è più soltanto una nicchia: essa riguarda una cifra oscillante fra il 35 e il 40% dei giovani che si trovano nella fase d’ingresso nel mercato del lavoro;
  • l’imprenditorialità culturale non riguarda soltanto le imprese propriamente dette: a fronte della impossibilità, per i più, di sostenere economicamente le spese di un’attività registrata alla Camera di Commercio, un numero crescente di giovani sceglie l’associazione culturale come strumento giuridico finalizzato al lavoro; per citare un dato numerico che sappia dar conto di tale tendenza, basti sapere che il numero delle associazioni iscritte al registro comunale delle Libere Forme Associative è passato da oltre 400 a oltre 700 proprio nell’ultimo decennio.

A fronte di tutto questo, in teoria, dovrebbe essere tecnicamente impossibile parlare di cultura senza parlare di lavoro e invece…

Le eccellenze: un concetto-feticcio per l’epoca dei tagli alla spesa

L’altro problema della pubblica amministrazione non riguarda il possesso di cognizioni ma è forse, per così dire, di natura intellettuale. A fronte della progressiva carenza di risorse la pubblica amministrazione, da un certo punto in poi, semplicemente non ha più saputo cosa fare.

Com’è noto, fino alla fine degli anni ’90 a Bologna più che in altre parti d’Italia vigeva il sistema del cosiddetto “finanziamento a pioggia”. Le risorse erano cioè ripartite tra il maggior numero possibile di associazioni e imprese attraverso finanziamenti diretti. Era un sistema che, in realtà, di sistemico aveva ben poco ma, dal punto di vista del mondo politico, aveva l’indubbio pregio di accontentare e tener buoni un po’ tutti.

games of.3jpgDopo gli anni ’90, gli ultimi tre governi italiani eletti hanno però operato tagli progressivi dei trasferimenti finanziari dal governo nazionale agli enti locali: prima il governo Berlusconi (2004), poi il governo Prodi (2006) e poi ancora il governo Berlusconi (2011). Con le casse svuotate, con i servizi di base a rischio, il settore culturale è stato ovviamente il primo a subìre ridimensionamento da parte dei Comuni. (Sui governi successivi e non votati dalla popolazione, dirò più avanti).

Dal primo taglio dei trasferimenti in poi, cominciano quindi i problemi nel rapporto fra politica e cultura. Domanda: se non ci sono più risorse per i finanziamenti a pioggia, che si fa? Orbene, la risposta degli amministratori a tale quesito si enuclea, fin da subito, intorno alla feticizzazione ideologica di un concetto: la valorizzazione delle eccellenze. Visto che non ci sono soldi per tutti, in parole povere, vanno prese in considerazione soltanto le realtà consolidate.

Ebbene, a fronte della carenza di risorse siamo davvero sicuri che sia questa l’unica opzione possibile? Ma soprattutto: si tratta di un’opzione che genera sviluppo economico del settore? Purtroppo la risposta, dopo dieci anni, siamo in grado di fornirla ed è un NO per entrambe le domande.

Possiamo anzi dire che quella sulle eccellenze è stata, sin dalla prima formulazione, una risposta intellettualmente povera per i seguenti motivi:

  • il grosso dell’occupazione (ancorché precaria) è dato dall’insieme delle attività imprenditoriali e associative diffuse e non soltanto da una quindicina di eccellenze;
  • le fasi in cui il mercato culturale ha avuto fasi espansive (per esempio la seconda metà degli anni ’90) hanno sempre coinciso con una forte differenziazione/moltiplicazione dell’offerta; pertanto, l’impegno della pubblica amministrazione dovrebbe riguardare l’aumento e non certo la delimitazione del numero di attori economici attivi nel settore;
  • come argomenterò più avanti, le possibilità per la pubblica amministrazione d’intervenire nel settore produttivo della cultura sono molteplici e la sovvenzione economica è solo uno strumento fra i tanti; quindi, un amministratore che pensa di non potere/dovere far nulla all’infuori dell’erogazione di finanziamenti diretti, ha semplicemente sbagliato mestiere.

Bologna 2000, ovvero l’inizio della fine

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Volendo attuare una rapida e quindi molto semplificata panoramica storica, possiamo dire che la pacchia dei finanziamenti a pioggia finisce nell’anno 2000.

Il dibattito cittadino sulla cultura giunge a quella data carico di aspettative, visioni altisonanti, magnifiche sorti e progressive. In quell’anno, Bologna celebra infatti se stessa come Capitale Europea della Cultura. In più, il dibattito pubblico ruota intorno all’enunciazione di grandi progetti, fra i quali il più noto – sostenuto principalmente dalla Lega delle Cooperative – consta della nascita d’un fantomatico Distretto Multimediale che, secondo alcune voci di corridoio, dovrebbe ospitare nientemeno che un nuovo centro di produzione della Rai.

desertiNel 1999, però, la città un tempo rossa viene espugnata dal centrodestra. Data l’assoluta idiosincrasia di tale coalizione politica nei confronti del settore culturale, le ereditate celebrazioni per la Capitale della Cultura vengono gestite da Guazzaloca e soci con scarso impegno promozionale e maldestro coordinamento; “Bologna 2000” si trasforma dunque – come scrive al tempo l’Assessore alla Cultura della giunta precedente, Roberto Grandi – in un’occasione pienamente mancata.

Inoltre, Guazzaloca ha la pensata di assegnare l’Assessorato alla Cultura alla persona meno esperta di cultura che abbia mai messo piede negli uffici di Via Oberdan: tale Marina Deserti. In ossequio al cognome, quest’ultima durante il suo mandato ha modo di dire: “a me Piazza Maggiore piace vederla deserta”. Ecco, così: giusto per tratteggiare sinteticamente il personaggio.

Regione e Provincia suppliscono in parte all’assenza del Comune sostenendo alcune realtà del territorio ma, purtroppo, di lì a poco ha inizio l’ordalìa dei tagli dei trasferimenti agli enti locali.

L’era Cofferati-Guglielmi, ovvero quando imparammo l’arte di arrangiarci

Arriva quindi l’era Cofferati e, sul rapporto politica-cultura, a Bologna scende il gelo dell’inverno. Ma quello che noi lavoratori della cultura davvero non possiamo immaginare, in quel periodo, è che possa trattarsi di un inverno come quello del romanzo/telefilm Game of Thrones, ovvero un inverno della durata di molti anni.

angelo-guglielmiCofferati va al potere svolgendo, nel corso della sua campagna elettorale, incontri con centinaia di associazioni culturali e annunciando, come obiettivo politico, la valorizzazione del lavoro culturale e cognitivo. Questi annunci non si tradurranno affatto in obiettivi mancati bensì si riveleranno, retrospettivamente, solo parole.

Assessore alla Cultura è nominato un uomo dal passato prestigioso (Gruppo ’63, direzione di Rai 3) che, però, non conosce la produzione culturale cittadina né mostra intenzione alcuna di conoscerla: Angelo Guglielmi. Circa due mesi dopo il suo insediamento, mi capita infatti di partecipare a un dibattito con lui alla Festa dell’Unità. Dopo una serie d’interventi di vari soggetti culturali cittadini, il neo-Assessore afferma di non vedere produzione culturale interessante a Bologna e che sarà suo intento, al contrario, far conoscere ai bolognesi produzioni di valore provenienti da fuori.

Ha così inizio e formalizzazione l’era dell’Assessore alla Cultura inteso come direttore di rassegne estive. Anziché amministrare il tessuto produttivo del territorio, anziché occuparsi di imprese e lavoratori del proprio settore, Guglielmi si diletta a “far sapere” ai bolognesi – nel corso di Bè – Bologna Estate – che al mondo esistono artisti come Laurie Anderson o Mike Patton: in pratica, il lavoro che sarebbe in grado di svolgere anche una matricola del Dams (probabilmente spendendo meno). Guglielmi annuncia altresì la realizzazione di una grande e costosissima mostra multidisciplinare sull’Ottocento. Grazie a Dio, i citati e reiterati tagli dei trasferimenti agli enti locali bloccano l’attuazione di questo personale capriccio.

Fatto sta che nell’era Cofferati, alla fine, la maggioranza dei lavoratori e delle imprese della cultura comincia a imparare l’arte di arrangiarsi. I lavoratori della cultura imparano, cioè, non soltanto a fare a meno dei finanziamenti diretti, ma anche ad abituarsi al fatto di non avere interlocutore alcuno all’interno dell’amministrazione comunale.

Interludio Delbononicoletta-mantovani-matrimonio

Nel breve periodo della Giunta Delbono, si torna ancora una volta a nominare Assessore alla Cultura una persona priva di conoscenza del territorio: la ex-moglie e collaboratrice di Luciano Pavarotti, Nicoletta Mantovani.

Grazie alla prematura e ingloriosa fine di quella giunta, l’esperienza dura poco. In quel breve arco di tempo, comunque, il paradigma Assessore = direttore artistico viene viepiù confermato.

L’era del commissariamento

Durante il periodo del commissariamento del Comune di Bologna, il trend non cambia granché. O meglio, si insinuano delle novità per cui gli operatori del settore hanno poco di cui rallegrarsi:

  • i finanziamenti e l’assegnazione di spazi per le realtà culturali vengono decisi autocraticamente dall’amministrazione, cioè senza bando pubblico;
  • alcune competenze riguardanti gli spazi per svolgere manifestazioni culturali e precedentemente attribuite ai Quartieri (questi ultimi, data l’assenza d’interlocuzione a livello comunale, sono rimasti nell’ultimo decennio unici interlocutori per una larghissima parte dell’associazionismo culturale), vengono ora accentrate dal Comune.

cittacreativa_gIn questo periodo, il Partito Democratico di Bologna organizza gli Stati Generali della Cultura. Io stesso vi partecipo e, anzi, organizzo insieme all’ideatore Matteo Lepore, presso la Festa dell’Unità, un incontro propedeutico con le associazioni più piccole. Queste ultime, però, disertano in massa sia quest’appuntamento specifico sia l’evento ufficiale (sull’approccio passivo e quindi sulla corresponsabilità della gran massa dei lavoratori della cultura rispetto alla situazione in cui siamo finiti, ci sarebbe bisogno di un articolo a parte).
Alla fine della fiera, gli Stati Generali divengono una passerella in cui l’associazionismo è scarsamente presente e dove sfilano le Fondazioni e le grandi istituzioni culturali. Da quel consesso, però, va anche detto che fuoriescono enunciazioni interessanti e riguardanti proprio la necessità d’invertire paradigma amministrativo: ovvero la necessità di realizzare una politica culturale focalizzata non già sui grandi eventi estivi, bensì sulla continuità della produzione del territorio.

Manco a dirlo, però, suddette enunciazioni saranno destinate a rimanere lettera morta.

L’era attuale, ovvero l’antitesi fra MOB e l’Assessore Ronchi

RonchiArrivando all’oggi, alla guida di Bologna s’insedia la Giunta Merola e Assessore alla Cultura diviene Alberto Ronchi.
Quest’ultimo accentra su di sé molte aspettative e molto consenso per un variegato insieme di ragioni, fra le quali:

  1. l’aver supplito – quand’era Assessore alla Cultura della Regione – all’impossibilità per molte associazioni bolognesi d’interloquire con Angelo Guglielmi;
  2. l’essere collocabile politicamente a sinistra del PD ed essere, anzi, parecchio mal visto all’interno di quel partito;
  3. lo scontrarsi apertamente con gli approcci ostativi ed estremisti dei Comitati anti-degrado nei confronti delle manifestazioni culturali all’aperto
  4. il fornire un’auto-rappresentazione “giovanile” sostanziata, in primo luogo, dalla dichiarata passione per la musica rock.

Malgrado quanto appena elencato, il paradigma amministrativo del Comune di Bologna sulla cultura, purtroppo, non cambia di una virgola. Ronchi costruisce, questo sì, un rapporto di maggiore sussidiarietà con alcuni soggetti privati. Il problema, però, è che si tratta di appena una manciata di operatori culturali, vale a dire una quindicina di attori economici riconosciuti dall’amministrazione come “eccellenze”. Tutto il resto, viene estromesso finanche dalla segnalazione sui flyer di Bologna Estate. Chi è escluso ha come la sensazione di essere invitato ad arrangiarsi da sé.

All’atto pratico, nell’era Ronchi il concetto di cultura mantiene il significato di sempre: panem et circenses per le masse nei mesi di giugno e luglio. Nel frattempo, la maggioranza dei produttori culturali continua, come ormai da più d’un decennio, a non avere nell’amministrazione comunale un interlocutore per il semplice fatto che quest’ultima non percepisce la cultura come ambito produttivo e occupazionale.

games of.5jpgSoprattutto, però, il paradigma delle eccellenze si rivela non essere intellettualmente all’altezza dell’attuale fase storica. La delimitazione dell’offerta, come prevedibile, non dà infatti alcuno stimolo al mercato. I teatri e i cinema continuano a chiudere, le istituzioni culturali cittadine rischiano di mandare in cassa integrazione i propri dipendenti, i dati Siae sullo sbigliettamento attestano un calo progressivo di anno in anno.

Inevitabilmente, questo vuoto di progettualità amministrativa finisce per essere coperto da altri. Nell’estate 2013, i Comitati anti-degrado organizzano una propria manifestazione estiva in Piazza Verdi. L’iniziativa, pur mettendo in atto una meritoria apertura nei confronti della produzione culturale diffusa, è caratterizzata da prestazioni artistiche svolte in maniera perlopiù volontaristica. Di conseguenza, difficilmente essa potrebbe essere presa a modello all’interno d’una prospettiva incentrata sull’indissolubilità del rapporto fra cultura e lavoro.

img francesca rossiDa questo punto di vista, l’unica discontinuità rispetto al decennio horribilis che ho sommariamente raccontato, ritengo sia oggi rappresentata dalla rassegna/network MOB – Molecole Bolognesi, ideata e organizzata dalla consigliera del Quartiere San Vitale Francesca Rossi e coinvolgente decine di gruppi e associazioni.

Questo progetto amministrativo si propone di utilizzare le istituzioni come strumento di mediazione, a livello cittadino, fra produzione (artisti, band, associazioni culturali) e distribuzione (teatri, locali privati, circoli). L’amministrazione di quartiere stabilisce cioè una sorta di convenzione con un insieme di spazi – non solo del San Vitale, ma di tutta la città – affinché questi ultimi ospitino ad affitti ridotti di un decimo (nel caso dei teatri) o retribuendo (nel caso della maggior parte dei locali), tutti i lavoratori della cultura che presentino progetti al Quartiere.

Al momento, pur tra mille limiti e incidenti di percorso, MOB è dunque:

  • l’unica azione amministrativa comunale che interpreta la produzione culturale diffusa come forza-lavoro nonché come potenza agente del general intellect;
  • l’unica azione in cui un ente locale tenta d’intervenire direttamente sul mercato con la finalità di promuovere la differenziazione dell’offerta culturale sul territorio;
  • l’unica azione, infine, che dimostra concretamente al Comune di Bologna e all’Assessore alla Cultura la responsabilità e la possibilità, per ogni amministratore pubblico, di essere un interlocutore di tutti i soggetti produttivi del territorio, di tutti i lavoratori: anche e soprattutto quando sussiste impossibilità di erogare finanziamenti diretti o assegnare spazi.

Come segnalato al primo punto, l’aggettivo “unica” afferisce al solo ambito comunale. Si potrebbe infatti parlare di eccezioni virtuose anche per ciò che concerne determinate linee d’intervento della Provincia di Bologna (dove, guarda caso, cultura e politiche sociali sono accorpate nel medesimo Assessorato). Come scritto nell’incipit, però, degli altri enti locali ritengo sia opportuno parlare in altra occasione.

L’inverno sta arrivando

Sopra ho scritto che, nei primi anni duemila, sul rapporto tra Comune di Bologna e produzione culturale è calato il gelo dell’inverno. Ebbene, forse è stata un’affermazione inesatta. Forse, volendo continuare a citare Game of Thrones, sarebbe più corretto dire che l’inverno sta arrivando.

games of.6pgQuesto, però, prescinde dalle elencate deficienze dell’amministrazione comunale. E prescinde finanche dal contesto bolognese: i vincoli del fiscal compact imposto dall’Unione Europea porteranno a ulteriori tagli alla spesa pubblica e, venendo messi in discussione i diritti basilari garantiti dalla Costituzione come pensioni e sanità, la cultura avrà sempre meno risorse.

Soprattutto, però, è in atto un dichiarato progetto di sottrarre margine di gestione economica agli enti locali. Il Governo Monti ha infatti innescato l’avvio di tale progetto: l’ha fatto sottraendo autonomia di bilancio alle Regioni attraverso la modifica degli Articoli 117 e 119 della Carta Costituzionale. Il prossimo e decisivo passo, da parte del Governo Letta, potrebbe constare della riscrittura in chiave iper-centralista dell’intero Titolo V, riguardante anche i Comuni.

In questo scenario, va altresì tenuto conto del fatto che tutti i partiti oggi presenti in Parlamento sono divisi esclusivamente sul come, non certo sul se tagliare la spesa pubblica. Alla luce di questi elementi, ognuno è quindi libero di trarre le conclusioni politiche che vuole.

Le conclusioni che traggo io riguardano la necessità che i lavoratori della cultura aprano, in autonomia, un piano di conflitto e di azione diretta volto a contrastare non già i tagli alla cultura, bensì la prospettiva generale di riduzione della spesa pubblica e, di conseguenza, il Trattato di Stabilità europeo.

L’inverno sta arrivando, dicevamo. E allora, volendo passare dal conflitto tra le famiglie Stark e Lanninster del sopra citato telefilm a quello shakespeariano fra le casate York e Lancaster, potremmo dire ch’è necessario si dispieghi, in tutta la sua aggressiva potenza, l’inverno del nostro rancore.

(*) Riccardo Paccosi è attore e regista teatrale

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