La maschera chapliniana non aveva ancora sviluppato la sua narrazione sentimentale, ma mostrava già il suo potenziale rivoluzionario. Era l’emarginato che reclamava l’inclusione sociale, cercando di darsi un’aria borghese con dei vestiti rattoppati; di più: la sua ossessiva invasione del campo della cinepresa che stava riprendendo la corsa automobilistica presagiva i protagonismi della società dello spettacolo. Negli anni successivi, vestendo i panni più diversi (soldato, usuraio, vagabondo, emigrato) Charlot avrebbe avuto modo di affinare la sua straordinaria ambivalenza: ingenuo, cuore d’oro, idealista, ma così testardamente attaccato alla vita da essere pronto a qualsiasi espediente pur di preservarla. Il grande passo, quello che diede spessore epico alla maschera di Charlot, Chaplin lo compì quando, divenuto ricco e famoso, nel 1919, con alcuni importanti colleghi, fondò la United Artists, garantendosi autonomia creativa e produttiva.
Furono gli anni dei grandi film muti, con la prorompente comicità in perfetto equilibrio con il melodramma della vita (Il monello, 1921; Il pellegrino, 1923; Luci della città, 1931) o con l’alienazione umana (La febbre dell’oro, 1925; Il circo, 1928; Tempi Moderni, 1936). Charlot, aggredito dalle intemperie, assalito da un esercito di scimmie mentre faceva il funambolo, inghiottito dagli ingranaggi della fabbrica, passava indenne su tutto, affermando e riaffermando il primato della vita e della capacità di adattamento sua e dell’uomo in generale. La sua umanità non arretrava di fronte all’assalto della società cinica e frenetica, non veniva indurita dalle avversità della sorte, ma ribatteva colpo su colpo con le stesse armi, deponendole solo di fronte allo sguardo del debole e dell’indifeso. Davanti alla minaccia del sonoro, Chaplin/Charlot si difese come il soldato giapponese nell’isola del Pacifico, ma alla fine fu costretto a cedere.
L’imminenza della catastrofe nazista non lasciava più spazio all’utopia di un mondo salvato dal sorriso e dalla compassione. Ne Il grande dittatore del 1940, la maschera doveva sdoppiarsi: da una parte, il mite barbiere ebreo raccoglieva l’eredità magnanima di Charlot; dall’altra, la sua struggle for life degenerava nel delirio della volontà di potenza del tirannico pazzoide Hynkel/Hitler. Nel successivo Monsieur Verdoux (1947), a mio parere suo capolavoro sonoro, Charlot, ormai imborghesito, davanti all’ennesimo sopruso nei suoi confronti da parte di una società alla quale aveva sacrificato persino la propria identità, si trasformava in un Raskolnikov seriale senza pentimento e redenzione. L’utopia charlottiana naufragava in un nichilismo cosmico, capace di assumere valore etico solo come paradigma del ben più abissale nichilismo della società, celato dietro le maschere del progresso e della trinità Dio, Patria, Famiglia. Per Charlot non rimaneva che un’ultima, nostalgica riesumazione in Luci della ribaltà (1951).