Tsumang é un piccolo villaggio a sud di Mariental trafitto dal sole. Le capanne di rami e fango resistono, sono paesaggio, i muretti a secco ricordano agli animali l´usufrutto dell´uomo e le piogge improvvise sono il motivo dei sorrisi degli anziani che dentro le capanne osservano la porzione di mondo che gli resta, e che comunque sanno sempre tutto. Bolaji é un ragazzino curioso dalla testa perfettamente rotonda e due occhi bianchi sporgenti. É nato a Tsumang quando ancora i bianchi non erano passati con il primo carico di medicine e alimenti con quelle jeep color terra e il profumo sulla pelle.
Isabella, una volontaria di una nota associazione umanitaria, lo guardava con orgoglio crescere. L´avrebbe voluto portare via. Non capiva la precisa ragione del perché lui e non gli altri bambini del villaggio. Ma era la sua casa, e anche se aveva perso la madre durante il parto del suo fratellino piú piccolo, gli restava il coraggio di Danjuma come capofamiglia, la nonna Abeba che faceva splendide collane da piccoli tronchi forati di arbusti secchi e raccontava storie dei grandi uomini che furono in Namibia. C´era la caccia e il bagno di gruppo lí dove l´acqua ha il colore familiare della tua pelle, danzare sotto la pioggia torrenziale e combattere contro le api in cerca di cibo, c´era la libertá, quella vera, non quella degli occidentali che devono vedere la realtá in televisione per distrarsi. Era la sua casa. C´era tutto quello che puó bastare e non c´era niente rifletteva Isabella, contenta di essere lontana dalla sua Napoli. Lei lottava, "sono una cazzo di sola" si ripeteva e l´unica gioia erano quei bambini piú ricchi di quel che potessero accorgersi. C´era un cuore da aggiustare, ed era scappata anche per quello.
Isabella un pomeriggio fermó Bolaji, in corsa tra il nuovo carico di cibo e la capanna di Fadhila, si decise ma senza saper cosa dire. Poi gli prese il viso tra le braccia e mentre l´avorio della sua pelle rifletteva la luce sulla spessa pelle nera gli disse in inglese:
- Che sogno hai Bolaji?
- Portare Fadhila via, da un dottore bianco
Per lui dottore bianco significava un vero dottore. Lei divenne pensierosa, si era infilata in un argomento da risposte quantomeno pericolanti. Vorresti essere sincero con un bambino, perché lui lo é con te. Vorresti ma non puoi fargli del male, deve farselo da solo, quando scoprirá la vita a piccole dosi, la schifosa realtá del "i soldi comprano tutto". Cosa doveva dirgli? "Sei nato nel posto sbagliato"? E poi non ne era cosí sicura.
- Le vuoi tanto bene vero?
- Nasceremo nostri, un giorno.
Marco le aveva detto la stessa cosa in altre parole, molti mesi prima. Le aveva promesso l´impossibile, che cosí ci piace a noi uomini, la frase ad effetto e la chiamata puntuale. Doveva poggiarsi a qualcosa, subito, doveva ricacciare le lacrime al mittente. Gli occhi vispi di Bolaji la studiavano per misurare la reazione inaspettata. Non sapeva che a volte i grandi sono piú fragili dei bambini, con sogni persi alle spalle che sono crac sul cuore. Altre volte trovi il senso nelle vite degli altri, le incontri e le fai tue, ti rispecchi nei loro sorrisi, nella semplicitá dei loro pensieri, nel cuore a cuore senza virgola. Un giocattolo che puó essere tutto, un dottore che forse potrebbe cambiarti la vita e di sicuro le speranze. Senti le vite degli altri forte piú della tua. Isabella si piegó sulle ginocchia. Vedeva chiaro l´orizzonte polveroso che portava a Mariental, vedeva chiaro per la prima volta dopo mesi la via della sua vita. E non era sola. Guardó Bolaji con le lacrime impolverate sulle gote. Disse solo: "vi porteró via".