Credo che sia il caso di ascoltarli, perché Fukushima concentra dentro la tragedia non solo lo specifico rischio tecnologico, ma anche quello dovuto a un modo di produrre energia che ha bisogno di enormi investimenti e che dunque è esposto anche alle incognite di voraci e cinici interessi. Tutti ormai conoscono le menzogne raccontate nel tempo dalla Tepco, il gestore dell’impianto che per anni ha falsificato i risultati dei controlli di sicurezza per non perdere i finanziamenti di Bnp Paribas, come conoscono le menzogne del governo giapponese che fino all’ultimo ha tenuto nascosto che nella centrale erano stipate 4277 tonnellate di materiale radioattivo di cui di cui 3.400 improvvidamente conservato nelle vasche.
Ma credo che sia il caso di ascoltarli perché nonostante le litanie degli scienziati ormai intrappolati dentro il nucleare, Fukushima ha accelerato, ma messo anche messo in evidenza il fatto che il nucleare era in declino già prima del disastro, sia come investimento che come potenza prodotta: a Maggio del 211 funzionavano 437 reattori (430 dopo l’uscita della Germania dall’atomo), 7 di meno rispetto al 2002 e con una produzione di energia scesa nello stesso periodo del 2%.
Per un certo numeri di anni questa fase di declino è stata nascosta dall’entrata nel mondo nucleare dei Paesi del Bric, Cina e India prima di tutto che volevano dotarsi di molte centrali dietro suggerimento dei maggiori gruppi bancari mondiali. Poi qualcosa è cambiato e ci si è riorientati verso le rinnovabili. Dal 2005 al 2009 gli investimenti in energia verde sono cresciuti del 125% e l’anno scorso hanno raggiunto la stratosferica cifra di 163 miliardi dollari, 43 in Europa e oltre 40 nella sola Cina, superando il nucleare. Una crescita impressionante in piena crisi.
In poche parole l’energia verde è riconosciuta come la vera chance del futuro e su di essa si concentra la ricerca più agguerrita e più giovane. Il paradosso è che la ricerca atomica a causa degli altissimi costi che comporta ( e l’aggancio al settore militare), nonostante sia in pratica ferma da 25 anni, assorbe ancora una notevole parte di fondi. E dunque spesso sentiamo la voce delle rendite di posizione, di banche, di potentati e di governi, dietro l’invito alla ragione. Che è la ragione di ieri, non la speranza di oggi.