Vecchi che rapinano i casinò; vecchi che ingaggiano guerre contro i giovani, vecchi che fanno cose fighe che i giovani non hanno voglia di fare. Vecchi, insomma, incapaci di fare i vecchi. E non solo: giovani scrittori che legittimano e anzi trovano divertente che i nonni non si comportino da nonni, ma da pischelli. Che, per dirla con Paolo Di Paolo, “mentre i ragazzi si perdono nell’ansia, nell’ignavia, nella sdraiataggine, scoprono il il lato ‘figo’ della vita”. Ecco, tutto questo a me fa orrore. E, sia chiaro, non mi fa orrore la vecchiaia, ma quello che i vecchi si ostinano a non voler diventare. Mi fa orrore che si sia perso il senso profondo della vecchiaia che, fino a un certo punto della storia dell’umanità, è stato diventare la guida delle generazioni successive.
Alcuni autori – come Lidia Ravera – appartengono a quella generazione che si avvia a una vecchiaia alla quale non ha alcuna intenzione di rassegnarsi e altri sono giovani o giovanissimi scrittori che si esaltano all’idea di far vivere a incongrui vecchietti imprese che non a caso Ron Howard confinava nella fantascienza di ‘Cocoon’. Ecco, lo ripeto, tutto questo mi fa orrore. E credo che nell’inconscio faccia orrore a tutti, perché non uno dei titoli citati mi sembra in classifica né candidato a vederla con il cannocchiale, mentre – a ben vedere – tra i libri che hanno associato in modo vincente il binomio vendite/vecchietti c’è quel ‘Va’ dove ti porta il cuore’ che, pur nella sua banalità, collocava i nonni nel luogo esatto in cui dovrebbero essere: al fianco dei nipoti e non davanti a loro, a oscurare il sole e ostacolare il cammino. E sbaglia Paolo Di Paolo quando vede nel ’Centenario che saltò dalla finestra’ l’antesignano dei titoli dedicati alle improbabili imprese di mirabolanti vecchietti, perché quel libro è tutto tranne che un racconto sulla vecchiaia. E’, semmai, una spietata presa in giro del Novecento e dei suoi orrori.
Nei titoli citati da Di Paolo non c’è tanto la voglia – condivisibilissima - di sentirsi vivi anche nella terza età, quanto il disperato tentativo di legittimare l’inadeguatezza di una generazione che si è scoperta prima incapace di edificare sulle macerie di un sistema che aveva tentato di abbattere, poi di costruire un modello di sviluppo e alternativo a quello capitalistico e infine di crescere figli ai quali un giorno lasciare la guida e ai quali offrirsi come sherpa. Incapaci di invecchiare, insomma, non tanto per la paura della morte, quanto per quella di perdere la poltrona, la seggiola o lo strapuntino per il quale hanno rinunciato ai sogni e agli ideali di gioventù. E Dio non voglia che gli ‘sdraiati’ scoprano qual è il destino di questi gagliardi vecchietti: essere pessimi nonni dopo essere stati genitori mediocri.