"Oye, Mulata! Sabes donde toca el medico en la noche?" Quando ho sentito la voce e la macchina che si fermava, ho fatto un salto dallo spavento. Stavo girovagando tranquilla ammirando le case, il pulviscolo di colori filtrato dalla luce forte del mare e sognavo l’immersione in un passato coloniale: mi immaginavo la vita di un tempo, le carrozze, le crinoline che chissà come erano soffocanti sotto quel sole deciso e avvolgente; osservavo il Morro dall’altra parte della baia che faceva la guardia alla città. Insomma ero in pace con me stessa come non mi capitava da tempo. L’idea di venire in vacanza a Cuba con le mie amiche era stata proprio azzeccata e, dopo una settimana a Cayo Largo, che sarà anche un posto molto turistico, ma ha un mare che è incomparabile e una vegetazione che resiste persino agli uragani, mi sentivo un’altra. La sabbia è così fine e bianca da sembrare borotalco e, miracolo dei miracoli, non ti scotta neppure i piedi quando ci cammini sopra sotto il sole bollente. La mia abbronzatura era perfetta: quel color cioccolato, che in Italia non si riesce a raggiungere neppure dopo maratone interminabili sui lettini, mentre il vicino ti dà una gomitata perché non c’è spazio e i bambini ti riempiono di sabbia costringendoti a bagnarti e a rispalmarti di crema, era proprio quanto avevo sempre sognato. E dopo una settimana di paradiso ero arrivata all’Avana da un paio d’ore. Rosy, Edi e Simona erano rimaste in albergo, per fare amicizia con la piscina del Riviera, l’albergo costruito quando qui c’era la mafia, mentre io avevo preferito giocare alla giovane esploratrice percorrendo tutto il Malecon, il sinuoso lungomare che incornicia una parte della città e arriva sino all’Avana vecchia. Questo il mio stato d’animo: felice, beata e finalmente libera, senza più gli occhi rossi e il ricordo di quell’infame che mi aveva lasciata dall’oggi al domani prosciugando il nostro conto in banca. Per fortuna mio padre aveva voluto regalarmi questo viaggio: "Ti farà bene, ti aiuterà a tirarti su di morale. Ma stai attenta ai cubani: sono speciali, meravigliosi, ma ci sono i poco di buono anche là e, di solito, li trovi per strada o nei luoghi frequentati dai turisti. Con loro non perdere tempo. Non ci parlare proprio, ti racconterebbero solo bugie", mi aveva raccomandato papi all’aeroporto. E a lui, che era stato a Cuba più volte, bisognava dare retta. Forse, senza neanche rendermene conto, mi sono ricordata le raccomandazioni ed è suonato il campanello di allarme. E quando ho sentito la voce che mi chiedeva del medico mi sono girata, furibonda, e ho risposto allo sconosciuto, senza neppure guardarlo in faccia: "Tanto per cominciare non sono una mulatta, a parte che è scorretto apostrofare così una donna, e poi non sono neanche l’ufficio informazioni dell’ospedale. Vai là se vuoi avere informazioni sul medico!" Ero proprio soddisfatta. Gli avevo dato due lezioni in un colpo solo: una su quanto è ‘eticamente corretto’ e l’altra sul fatto che non mi si abborda così per strada, chiedendomi di un medico o di un ospedale. Almeno uno trova delle scuse più intelligenti se proprio vuole fare amicizia! Ho alzato gli occhi per ammirare il mio trionfo sulla sua faccia e mi è preso un coccolone. Bello, ma di un bello, di un bello, che non riescono a trovarli così neppure per le cartoline. Pelle chiara, e io pensavo che tutti i cubani fossero neri, e occhi verdi e più intensi ancora del mare di Cayo Largo. Beh, fa niente, anche se è bello. Anzi, soprattutto per questo non gli avrei dato confidenza. Io. Lui era di tutt’altra opinione: "Ah, italiana, che belle le italiane! Io parlo pochito, pero intiendo. Te piace la Habana? Estay de vacacciones?" ha proseguito imperterrito. E io cosa dovevo fare? Non rispondere, fare la maleducata di fronte a un sorriso travolgente che spuntava dalla vecchia e scassatissima macchina, oppure dovevo dargli confidenza? Tutto sommato non si stava comportando male, non faceva commenti pesanti. Ma c’era sempre la storia del medico e, stizzita per la presa in giro, non ho perso l’occasione per ributtargliela tra i denti: "Sì, sono italiana in vacanza. E proprio per questo non lavoro in ospedale. Cosa vuoi che ne sappia io del medico e di dove tocca? Dipenderà dalla malattia che uno ha!" Mi ha guardata stupita e poi è scoppiato a ridere, con una risata che sembrava non dovesse finire mai e poi ha parlato:"No, que entendiste? Il Medico era un medico, ma ahora è un grupo musical e questa notte c’è un concerto gratuito. Da noi tocar vuol dire suonare!" Quanto stupida mi sono sentita non lo racconto neppure. So solo che dopo un po’ sono scoppiata a ridere anch’io come una pazza e in un millesimo di secondo sghignazzavamo in coro, senza riuscire a fermarci. E’ così che ci ha trovato Rosi, uscita dall’albergo poco dopo di me, e intenzionata a raggiungermi per esplorare insieme la città. "Ma cosa stai facendo? Non eri tu quella della serie ‘ragazze non facciamoci abbordare dagli sconosciuti’?" mi ha apostrofato piena di stupore. Ha girato intorno alla macchina; l’ha visto ed è rimasta a bocca aperta, come una tontolona qualsiasi che vede i fuochi artificiali per la prima volta nella vita. Ci ha pensato lui a sbloccare la situazione: "Salite chicas, che vamos a conocer La Habana", ci ha detto. E cosa dovevamo fare? Siamo salite ed è iniziata una vera e propria gita turistica. Lui, che poi si chiama Miguel Angel Aguilera (persino il nome era meraviglioso, soprattutto rispetto al mio, un banalissimo Maria) conosceva tutto e tutti. Salutava chiunque, entrava in ogni angolo e in ogni vicolo, gironzolava in una città di due milioni di abitanti come se fosse stato in un paesino di dieci anime. Per farla breve, quella settimana all’Avana si è trasformata in un percorso di conoscenza, tra il Museo napoleonico e quello della Rivoluzione, tra le discoteche per turisti e le feste in casa dei cubani, tra le spiagge dell’Este e la partecipazione ai dibattiti stradali dei Comitati di Quartiere dove tutti protestano con il loro delegato, quello prendeva appunti e alla fine si mangiava, si beveva e si ballava. Noi eravamo un quartetto affiatato e il nostro ‘Angelo’ protettore non ci perdeva di vista un istante. Un giorno ci ha portato anche da un babalao, che non ho capito bene cosa sia, ma è un po’ come il vescovo di questa religione afrocubana a cui tutti si affidano. Ci ha chiamate una per una e a ciascuna di noi e ha raccontato vita, morte e miracoli. Da non credere! Parlava in una lingua strana e Miguel Angel traduceva da quel linguaggio che poi era africano, yoruba, per la precisione: "Tu vivi lontano da qui e sei infelice. Un uomo grande e con pochi capelli ti ha lasciata sola e senza denaro. Hai pianto per questo, ma è stata la tua fortuna. Attenta a non illuderti di nuovo, devi capire cosa vuoi per davvero e quanto sei disposta a fare per ottenerlo. Ricorda. Il cane ha quattro zampe, ma va in una sola direzione", ha concluso questa specie di sacerdote seduto per terra che faceva le divinazioni. Per la prima parte:azzeccato! Ma la seconda proprio mi suonava come un mistero. Con i giorni mi stavo affezionando sempre più a Miguel Angel e, sembrava, anche lui a me. Ma non volevo, non potevo gettarmi in un’altra storia: ne avevo avuto abbastanza della batosta precedente. La partenza è stata tragica: magone, mal di stomaco e sull’aereo noi quattro che ci guardavamo smarrite, come avessimo perso un pezzo di vita. Non riuscivamo neanche a parlare, se non per qualche frase smozzicata: "Ti ricordi che bello il Callejon de Hamel, quella meravigliosa galleria d’arte all’aria aperta in Centro Habana, con i dipinti sulla santeria che facevano pensare a un luogo allegro e mistico e il gruppo rap che suonava?", diceva Edi. E subito Simona " e di quella sera quando quel tipo mi ha dedicato una canzone e mi ha chiesto di regalargli i miei occhi per illuminare le sue notti?" E Rosi, di rincalzo:"e quando Miriam, l’amica di Miguel Angel ci ha organizzato la festa e alla fine casa sua scoppiava di gente e abbiamo dovuto trasferirci da una sua vicina..?" Solo io tacevo e mi ballava davanti agli occhi il suo viso, quello di Miguel Angel, sentivo le sue frasi nelle orecchie, ritrovavo i suoi occhi nel mare caraibico che stavamo lasciando, rintracciavo nella mente la sua risata aperta, squillante, ma anche le sue preoccupazioni per il Bloqueo, l’embargo statunitense che da oltre quaranta anni attanaglia l’isola. Le emozioni erano tante, troppe, e il nodo in gola enorme. Forse avevo sbagliato qualcosa a non lasciarmi andare. Forse avrei dovuto essere più sciolta, meno sulla difensiva e con questo atteggiamento avevo perso un’occasione per tornare a sognare. Non ero ancora arrivata in Italia e già la nostalgia mi stava stendendo.
Mio padre ha capito subito che mi era successo qualcosa. Non mi ha fatto domande, si è preso i ricordini di viaggio e ha chiesto a tutte noi. "Allora, contente? Ho fatto bene a consigliarvi Cuba?" Domanda retorica: bastava vederci in faccia per capire che la felicità e l’allegria trasudavano da ogni poro. I guai sono arrivati poi. Distratta e svogliata non riuscivo a combinare nulla, persa nei sogni, nei ricordi e nella faccia di Miguel Angel. Per fortuna ho iniziato a lavorare e a insegnare italiano agli stranieri, così ero costretta a tenermi impegnata. Un giorno,mentre guardo la posta elettronica mi arriva un messaggio da Cuba, mittente sconosciuto ma significativo: "Angeldemaria" che tradotto vorrebbe dire "Angelo di Maria". Il cuore mi ha fatto cinquanta capriole e ho iniziato a leggere: era lui! Si era iscritto a un corso di italiano all’ università e lo frequentava in parallelo a Microbiologia, che però avrebbe terminato dopo un paio di mesi. Al di là dei ragguagli sulla vita quotidiana, i comuni amici e le informazioni sulla musica e sui concerti, non c’erano segnali per farmi illudere, a parte il suo mittente e il corso di italiano. Sembrava proprio una lettera da un caro amico. Avrei spaccato il computer per la rabbia: io ero qui, gonfia di nostalgia e di rimpianti e per lui, invece, tutto era normale. Lo so, sono un’impulsiva e le scelte vanno ponderate, ma quando mi prende la furia non ragiono più. Gli ho risposto, annunciandogli il mio viaggio a Cuba nell’arco di tre mesi. Fiera della mia impresa ho chiamato le mie amiche per farmi accompagnare ma nessuna di loro ha potuto farlo. E in quel momento mi ha preso il panico. Cosa andavo a fare, da sola? Certo, il fascino dell’isola era indubbio, il senso dei ricordi più che nitido, la voglia di conoscere pezzi nuovi della capitale, ma anche di altre parti dell’isola era sicuramente tanta. Ma lo sapevo benissimo: dietro i miei mille paraventi di scuse ben orchestrate c’era solo un motivo. Un motivo bello come un dio greco e dal nome paradisiaco: Miguel Angel. Che però non sembrava dimostrare un interesse eccessivo nei miei confronti. E se avesse avuto una donna? E se fosse stato gay? E se, e se, e se….. "Basta. Il dado è tratto. Lo ha detto Giulio Cesare e lo dico anch’io. Partirò senza troppe storie", mi sono convinta per farmi coraggio.
Poi la frenesia dei preparativi, il viaggio in aeroporto con una specie di nebbia nella testa, quasi fossi stata narcotizzata, l’aereo che prendeva quota, i film, il cibo, il vicino ciccione che sbuffava e a cui niente sembrava andare bene si sono ridotti a un niente. Un niente, quando dall’oblò ho cominciato a scorgere quel mare che non ha paragoni, il verde intenso della Sierra e i puntini minuscoli delle abitazioni. "Allacciate le cinture, stiamo effettuando la discesa per l’aeroporto Josè Martì", ed ero arrivata. Mi ha accolto una bomba di calore umido così intenso che mi ha rassicurata. "Ci sono, finalmente, eccomi nella terra promessa" ho declamato mentalmente. La delusione è arrivata dopo la dogana: Miguel Angel non c’era. Eppure gli avevo scritto, lo avevo avvisato "così impari a vivere precipitosamente", mi sono sgridata, mentre una bambina mulatta, con i capelli raccolti e tanti fiocchi colorati mi tirava per la borsa "Eres tu Maria?" mi ha detto.
"Sì, sono io, e tu chi sei?". Con gli occhi che ridevano e un sorriso a tutta faccia mi ha risposto: "La hermanita, la sorellina di Miguel Angel. Vamonos!" E sono andata con lei per mano, e le gambe che sembravano volare verso il mio sogno. Che invece era lì, appoggiato al finestrino della macchina, come la prima volta che l’ho visto. Era lì e mi sorrideva, mi aspettava. Ha caricato la valigia e siamo partiti, con la sorellina che osservava tutto senza fare domande. Noi invece abbiamo parlato senza interruzione, quasi a colmare quei mesi di assenza: la sua laurea e il suo lavoro, la mia attività, l’Italia, il clima, le strade, la vita, i pensieri….non so bene cosa ci siamo detti. So solo che più lui esibiva il suo ‘idioma italiano’, io mi sentivo gonfiare il cuore e la pancia di felicità. I giorni sono rotolati come biglie sulla spiaggia, e in quel mese è accaduto tutto quello che non era successo prima. Un amore così non sarei riuscita a immaginarlo nemmeno dopo venti anni di corsi di creatività. Ci amavamo e faticavamo a staccarci anche solo per pochi minuti. Inevitabile la scelta di vivere insieme. Ho telefonato a papà, gli ho spiegato tutto, lui (meraviglioso!) ha preparato i documenti e chiesto i permessi. Abbiamo comprato il biglietto. La partenza era fissata da lì a tre giorni. Ma Miguel Angel era cambiato. Non gli vedevo più il suo sorriso contagioso, non mi raccontava più storielle e barzellette. Abbiamo anche litigato, quando gli ho fatto notare che non si apostrofa una persona chiamandola ‘negra o mulata’. Se ci si vuole riferire a chi ha determinate caratteristiche somatiche "Si dice: è di colore, altrimenti è razzismo" gli ho fatto notare. "Ah, è razzismo? E perché tu invece il colore non lo hai? Tu di che colore sei, visto che dici ad altri che sono di colore? Sei un’ipocrita. Noi siamo più onesti, diciamo le cose come stanno e basta. E non facciamo differenze. Guarda mia sorellina, è mulata perché mia madre ha sposato un negro. Ti sembra razzismo?" Ho incassato in silenzio. Beh, aveva ragione, ma io ero offesa comunque. Forse per il tono, forse per l’atteggiamento, forse per un qualcosa che non riuscivo a spiegarmi, ma mi faceva male. "Andiamo a la playa", gli ho chiesto. Ci siamo diretti verso le spiagge habanere, alla Playa de l’Este e ci siamo fermati a quella che mi piace di più: Santa Maria. Ci siamo seduti sulla spiaggia, guardando il mare. Lui era triste, nonostante il sole e la splendida giornata; sembrava volesse dirmi qualcosa. Si è alzato ed è andato verso il bar. E’ tornato con un sacchetto di plastica. Ha tirato fuori dei cubetti di ghiaccio "Vedi, Maria, io sono come questo ghiaccio". Non capivo e glielo ho detto. "Questo è ghiaccio cubano e si scioglie sotto il sole di Cuba. Io sono uguale. Se mi sciolgo mi sento vivo, divento l’acqua che si muove, posso amare, altrimenti rimango solo un cubetto come tanti. E via da Cuba non mi posso sciogliere. Non partirò con te, non posso. La mia terra ha bisogno di me, degli studi che mi hanno permesso di fare, del lavoro sociale che ho iniziato. Se resto continuerò ad amarti, anche a distanza. Se parto, perdo tutto: il tuo amore, ma soprattutto me stesso", mi ha detto mentre le sue lacrime si confondevano con l’acqua dei cubetti ormai sciolti. Era sincero, e io un catorcio. Ma non potevo forzarlo, lo avrei perso per davvero. Sarebbe venuto con me per amore ma non mi avrebbe regalato la sua anima, quello a cui tenevo di più e che avevo conosciuto nei giorni insieme. Così, gonfia di dolore sono tornata in Italia.
E adesso sto sigillando i pacchi, chiudendo gli scatoloni perché tra tre ore me ne vado via insieme a papà che, dopo la morte della mamma, non ha alcun legame. Dove vado? All’Avana, naturalmente! Miguel Angel mi aspetta, la nostra casa è pronta e io lavorerò per insegnare italiano agli stranieri: ho trovato una collaborazione come lettrice all’università dell’Avana e ho un contratto in tasca con la Dante Alighieri, ente italiano che ha proprio il compito di diffondere l’italiano all’estero. Ecco cosa voleva dire il babalao a proposito delle scelte e del cane che con quattro zampe sceglie una sola direzione: Cuba, aspettami, sto arrivando!