In genere parlo di libri, ma visto che la vita è un grande romanzo, non fa poi così differenza raccontarne un pezzetto.
Ci sono giorni che lasciano il segno e per renderli indelebili hai bisogno di scriverne. Forse i miei argomenti, per chi non ha figli né li desidera, sono insulsi, ma sono certa che qualche genitore capirà questo desiderio di dar voce ai pensieri. Pensieri che hanno un destinatario preciso, perciò mi rivolgerò direttamente a chi un giorno, da adulta, potrà dare un senso a queste parole e ritrovarvi un po’ di sua madre.
«Cara Martina, questa settimana hai esordito nel primo spettacolo di danza della tua vita. Be’, veramente, già ballavi anni fa dentro alla pancia e da allora non hai più smesso, ma non avrei mai pensato che ti avrei vista muoverti su un palco truccata e con gli abiti di scena.
Non credo che la danza sarà il tuo futuro, le “x” della tua vita le sostituirai come meglio credi, ma questa esperienza resterà per sempre la prima in cui hai superato paure che molti non vincono in una vita e, si sa, le prime volte non tornano, né si scordano mai.
Già alle prove generali ero rimasta senza parole.
Mi avevano parlato tanto del Festival della scuola di danza Coco Comin, che si tiene ogni due anni al BTM, un famoso teatro cittadino, e a cui partecipano tutti gli allievi della scuola. Circa mille ballerini dai quattro anni in su, dilettanti e aspiranti professionisti insieme. Me ne avevano parlato, ma non avevo capito.
Qui a Barcellona, Coco, la ballerina e coreografa che ha fondato la scuola, nel mondo del teatro musicale è un’istituzione; è sua la produzione di musical famosi come Mamma mia e Grease, ma tuo padre ed io non ti avevamo certo iscritta a quel corso di jazz dance, che volevi tanto frequentare, per la notorietà dell’accademia, bensì per la vicinanza della sede a casa nostra.
Hai passato l’anno scolastico allenandoti due volte alla settimana insieme a tante altre bambine della tua età. Ti vedevo in casa mentre fischiettavi una melodia e ripetevi passi e movimenti per me complicatissimi. Della commedia musicale che stavate preparando sapevo soltanto che il titolo era Rouge.
Il giorno delle prove ti ho truccata (ce l’ho messa tutta ma tu hai capito di avere una mamma che se la cava meglio con la penna che con le matite colorate) e ti ho portata in teatro con anticipo. Sapevo che eri un po’ nervosa, anche se non volevi darlo a vedere. Hai una sicurezza che mi spiazza, forse perché vedo in te una fiducia nelle tue capacità che la vita mi ha scippato. O forse sono stata io a farla scappare, ma questa è una storia che ti racconterò un’altra volta.
In platea, con le ragazzine del tuo gruppo, hai atteso di essere chiamata sul palco. Avete ripetuto la coreografia varie volte, prima senza musica e poi sulle note di Soleil Soleil, una canzone perfetta per voi che brillavate come stelle contro il nero dello sfondo.
Io ti guardavo e intanto registravo tutto con la telecamera che mi tremava tra le mani. Mi veniva da piangere. Sai, io a ballare sono proprio una frana. Da chi avrai preso? Forse da papà che quel giorno, tanto per cambiare, era lontano. Gli mandavo le foto con l’Iphone, benedetta tecnologia che ci regala l’illusione di poterci toccare il cuore a migliaia di chilometri, e mi sembrava di vederlo mentre si commuoveva davanti alle tue gote rosse e al sorriso con i brackets che detesti.
Siamo uscite dal teatro alle nove di sera, eri stanchissima, ma sentivo che eri orgogliosa di te.
Poi è arrivata la sera dello show.
La giornata era stata di quelle complicate, tuo padre è tornato stravolto da uno dei suoi viaggi apposta per vederti, tuo fratello era eccitato ed io nervosissima. L’unica che sembrava non ricordare che quella sera avrebbe dovuto ballare davanti a mille persone eri tu.
Abbiamo ripetuto il rito del trucco e una volta in teatro quello della vestizione. Poco dopo un accompagnatore della scuola ti ha preso in consegna e ti sei avviata con lui verso i camerini. Mi è sembrato un distacco prematuro, ingiusto, mancava ancora un’ora all’inizio, ma tu, mentre scendevi le scale per mano a quel tizio, ti sei girata e mi hai mandato un bacio. Ho capito che dovevo lasciarti andare, che il gran ballo della vita per te cominciava in quel momento e che io potevo solo stare a guardare in platea.
Quando è comparso il tuo gruppo, grazie alle prove, sapevo già dove trovarti. Non ti ho staccato gli occhi di dosso e mentre danzavi ho capito che le risposte che ho sempre cercato sul senso della vita erano tutte lì, su quel palco. Perché nulla ha più senso di una bambina che balla sorridente di fronte ai suoi genitori.
Vorrei che potessi mantenere quel sorriso spensierato per sempre e farò di tutto per evitare che le mie inquietudini si trasformino nelle tue angosce, che i miei desideri diventino le tue frustrazioni, che i miei giudizi inibiscano le tue ambizioni.
Ho capito che il mio compito è insegnarti i passi e gli stili, ma la coreografia della tua esistenza la dovrai inventare da sola. Dopo averti visto ballare con quella grinta sono certa che sarà uno spettacolo meraviglioso. Non permettere mai a nessuno di farti credere il contrario.
Sei già una piccola donna e qualche volta ti è già toccato cercare di comprendermi. Hai provato a consolarmi quando ero triste, mi hai chiesto “Stai bene?” quando non avevo voglia di parlare. Ti ho detto “sì”, anche se sapevo che sapevi che mentivo. Invece, oggi, ti dico che sto bene davvero, che vederti emozionata e felice al termine dello spettacolo è stato partire verso nuovi orizzonti.
Mano nella mano con te, posso andare ovunque.
Buona vita, Marti».
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