La bottega del “mastro scarparo” Nino Spanto si trovava in via Carusa, l’ex “calata” del cinema, in un tempo in cui (1957) il cinema ancora non esisteva. Era però in costruzione e da lì a poco sarebbe stato aperto al pubblico, gestito dai fratelli Domenico e Vincenzo (“u vichingu”) Luppino, rientrati in paese dall’Eritrea alla fine della seconda guerra mondiale. Dal calzolaio, i ragazzini imparavano a fare una scarpa dal nulla. Appena presa confidenza con trincetti e lesine, tagliavano il cuoio, cucivano la tomaia e i “petti” (le suole) con lo spago incerato e alla fine estraevano dalle forme inchiodate il prodotto finito. Il primo impatto con il lavoro consisteva in mansioni semplici: i più piccoli dovevano infatti raccogliere con una calamita “simiggi” e “zippe”, i chiodini che restavano per terra a fine giornata e che dovevano poi raddrizzare in modo da renderli riutilizzabili. Non era previsto alcun compenso. Erano anzi i ragazzi a omaggiare il “mastro” (feste comandate, onomastico e compleanno), il quale si sostituiva all’autorità paterna, grazie alla delega conferitagli (“se faci u malu, minati”) ed esercitata con schiaffi e nerbate generosamente distribuiti.
A partire da sinistra, in alto: Cosimo Surace (“u Patru”), ’Ntoni Saccà (“u Casettotu”), “mastro” Nino Spanto, Vincenzo Gabrotti, Nino Villari (“u Zoppareddu”, “Ngaiò”). In basso: Rocco Polimeni, Gaetano Comandè (“u Gattu”), Diego Forgione (“Mario”, “u Tornaru”), Franco Tripodi, Carmelo Pentimalli.