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Da “PER LA COSTRUZIONE DI UN’ARCHEOLOGIA (FUTURA)” – Inediti di Silvia Rosa

Creato il 23 ottobre 2013 da Wsf

Silvia Rosa ph Gepe Cavallero

Silvia Rosa ph Gepe Cavallero

TI HO GUARDATO

Ti ho guardato gli occhi, certo,
così simili ai miei
nelle curve delicate dei silenzi,
un taglio netto a tutto
quell’azzurro così feroce,
una promessa di nocciola
tra i resti di sorrisi appesi
ruga dopo ruga un po’ all’ingiù
per ricordarmi di ancorare
i miei pensieri a terra, cardine
e spazio di un respiro nuovo,
ma soprattutto il modo
con cui attraversi a passi fieri
l’idea stessa di un cammino,
hai le spalle dritte e sembri così quieto
che se ho temuto già una fine
è questa: non starti più vicino
mentre dai fiato buono
a quest’andare, e non importa dove,
ti ho guardato camminare e all’improvviso
non ho più avuto voglia
di voltarmi indietro.

PER LA COSTRUZIONE DI UN’ARCHEOLOGIA (FUTURA)

Scatto una fotografia
in questo pomeriggio di fine agosto
sole alto e vento che penso
al cielo come a un lenzuolo tutto
bianco che sa di fresco e buono,
ti dico di sorridermi e ancora
osservo come da dietro a un telescopio
fatto di parole terse e lucide
il tuo volto, non ti ho mai detto
che a volte non riesco a non guardare
le tue labbra che stanno silenziose
incorniciate dalla barba, così
squisitamente chiuse che invitano
alla guerra, fuoco e fiamme, ai morsi:
e tu sorridimi per i giorni che verranno
fissiamo sguardi, gesti, le prime danze
intorno al centro di noi stessi,
le stanze dei musei che visitiamo,
i passi per le vie della città, le mani
che si sfiorano, lo stesso libro che leggiamo
insieme, una pagina tu e una io, i fiori secchi
raccolti chissà dove e portati in dono, i segreti
mai ascoltati che poi diventeranno fazzoletti lisi
quando un domani che non sappiamo quando
avremo solo questo, l’archeologia (futura)
di un amore, di cui raccoglieremo i pezzi,
e ci confonderemo spesso tra le ere
del prima e dopo, sarà successo forse come
in sogno, o non sarà successo affatto,
la storia dopotutto è un racconto un po’ sfocato
rammendato lasco da tempo e da memoria.
Adesso scattami tu una foto, in questo pomeriggio
di fine agosto, ti sorrido, mentre penso
è strano come ogni inizio sembri già
una morte, perfetto e infinito.

IL TUO NEO IN GIAPPONE

Delle stampe e dei dipinti giapponesi
in posa quieta spalmati alle pareti del museo
mi resta in mente per contrasto d’ironia
la puntiforme oscurità di quel tuo neo
comparso all’improvviso “ammirando i fiori
di ciliegio in riva ad uno stagno di Ueno”,
il tuo neo in Giappone, piovuto tra una fitta
di dolore e la spinta acuta e cieca
consapevolezza che sa di solitudine
tra “fiori di ciliegio al vento”
il tuo neo è un segno di chiusura,
io lascio indietro tutto il tempo
che si fa rosso e ocra e cristallizza
in acqua mossa appena oltre le ciglia,
baratto il cielo blu sbeccato di tanto inferno
con “le dodici ore del mondo fluttuante”
misuro cauta le distanze, un quarto di poesia
da qui ad un tuo bacio “godersi le peonie del cortile”
e poi un tuo abbraccio e quando scolora il sole
in punta di lingua da barba a guancia e ritorno
al nero, a terra cadranno via difese e maschere
io voglio quel tuo neo prima tra le labbra
e poi a macchiarmi il bianco delle cosce
e per concludere se resta spazio nel finale
tra i versi dell’ultima poesia che scriverò per te
quando

A SOQQUADRO NELL’UNIVERSO

[piazza Carignano, tu ed io su una panchina
questa domenica pomeriggio con nuvole
di consistenza settembrina e un tizio strano di fronte
che suona uno strumento indiano e una musica
di fronde mosse scivola fino a sfiorarci i piedi
e le mani, noi, lo stesso libro e voce alta da scolari
mentre tu leggi una pagina e io continuo,
- mastichiamo lenti l’Elogio (ironico) della Follia].

E a soqquadro nell’universo ho trovato
cieli barocchi e riso soffiato ad un certo punto
di questa domenica, che sembrava di essere
dentro a un romanzo, o nel mezzo di un film,
tra morbidi flutti di pietra e la gente come comparsa
che passeggiava ignara portandosi a spasso
la propria vita, poi è piovuto piano e tu avevi
una gocciolina d’acqua sulla barba e la Follia
avrebbe voluto che fosse asciugata da una carezza
leggera o da un bacio, ma il riso soffiato
mi riempiva le labbra di meraviglia e non mi sembrava
vero che il cielo fosse centomila ghirigori barocchi
e che a soqquadro nell’universo avessi trovato
un’uscita a tutta la nausea d’azzurro che mi soffocava
da tempo i pensieri, non mi sembrava vero
che l’uscita coincidesse perfettamente
con una domenica pomeriggio di non si sa dove,
quando come dentro a un racconto su una panchina

[eccetera eccetera]

Da “N(U)OVESTORIE E ALTRI OCCHI”

COME SE

Come se il silenzio fosse una pellicola bianca
che si posa una raffica di piccoli proiettili
di neve e di ghiaccio, come se fosse pelle che cade
che si sfoglia e non restassi muta e non restassi
senza pelle e non restassi di sangue e di ossa
e restassi niente, come se dopo ogni parola
sparisse una porzione di corpo, come se
dopo il silenzio non mi decomponessi in cellule
come se in un vuoto di cielo e di terra non
restassi che in questo silenzio come la fine il punto
la resa l’ago che cuce la bocca e il ventre
come se fosse ventre il mondo, come se non fosse
la tua voce come se non restassi come se non.

CINQUECENTO PASSI

Questo correre, come da bambina,
per scappare alle ombre -alla mia,
che mi segue appena-: gli alberi qui
sono presenze ordinate in fila soldatini
fischi silenziosi che arrivano dritti al cielo
e parlano ai corvi che vanno e vengono,
cinquecento passi insieme a tutte le foglie
morte del viale, la casa gialla al fondo,
due cani che fissano quell’ombra dietro
alla mia schiena, ed io che vedo di lontano
solo il ritorno, in direzione opposta,
dall’altra parte della strada.

OCCHI

Mi colano gli occhi
in questa tazza di caffè amaro,
gli occhi con tutte le parole
che dicono occhi e tazza e caffè amaro,
con tutte e due le mani
che stringono la tazza e sfiorano le labbra
e vedono nel nero liquido di quest’alba
gli occhi galleggiare come due pesci morti
in una pozza d’acqua sporca,
e la bocca appesa al bordo della tazza
si affaccia al vuoto e inghiotte nero
alba mani e occhi, e quando inghiotte
gli occhi, tace.

UN PICCOLO BOTTONE ROSSO

Se questa rabbia fosse tutta
un piccolo bottone rosso:
potessi prenderlo tra le dita tirare forte
sentire il filo di cotone che scivola via
come erba secca, potessi sostenere
tutto nello sguardo il vuoto che sprofonda
fino al cuore dall’asola scoperta
e con le dita piano cercare un battito
uno solamente, sentire che la fine
si allenta come una camicia aperta
cade a terra e di colpo io non ho più freddo,
potessi cadere a terra anch’io -erba cotone
filo stretto- gli occhi due bottoni appesi
a ciò che resta, potessi prenderli tra le dita
e dirti indossali, e adesso guardami con quelli,
nuda come non mi hai mai vista.

**

Silvia (Giovanna) Rosa nasce nel 1976 a Torino.
Laureata in Scienze dell’Educazione, ha frequentato il Corso di Storytelling della Scuola Holden di Torino (2008/2009). Scrive poesie e racconti e partecipa a letture, poetry slam e reading poetici. È redattrice del blog Migranze.net – Portale di scrittura interattiva (www.migranze.net). Organizza eventi letterari e mostre di arti visive.


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