Da “Piombo fuso” a “Pilastro di Sicurezza”

Creato il 19 novembre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Giuseppe Dentice

A quatto anni dall’Operazione Piombo Fuso che causò oltre 1.200 morti tra i Palestinesi, il governo israeliano ha ordinato una nuova campagna militare nella Striscia di Gaza. Oggi come allora, l’operazione “Pilastro di Difesa” è stata ordinata dal Primo Ministro dimissionario Benjamin Netanyahu come rappresaglia per il lancio di razzi che da settimane partivano con una certa regolarità verso Israele. L’IDF (Israeli Defense Forces) ha lanciato lo scorso 14 novembre un’operazione aerea e navale su Gaza nella quale sono stati uccisi Ahmed Said Khalil al-Jaabari, il capo delle Brigate Ezzedin al-Qassam (l’ala militare di Hamas), e Raed al-Attar, un altro responsabile militare della fazione islamista. L’omicidio al-Jaabari ha scatenato la violenta risposta palestinese fatta di lanci continui di razzi Grad, Qassam e Fajr-5 sulle città israeliane del Sud come Ashqelon, Ashdod, Be’er Sheba, Sderot e Dimona. Negli ultimi giorni però i razzi hanno colpito anche Tel Aviv e Gerusalemme, quest’ultima città simbolo dell’atavico scontro arabo-israelo-palestinese. Secondo i dati diffusi dal Ministero della Difesa, dal 14 novembre sono stati lanciati dalla su Israele circa 740 razzi e di cui l’Iron Dome, il sistema anti-missile israeliano, è riuscito ad intercettare solo un terzo dei missili diretti verso i centri abitati. L’agenzia stampa palestinese Ma’an ha stilato un primo bilancio ufficiale descrivendo per il momento 70 morti (di cui solo 3 gli israeliani) e diverse centinaia di feriti.

Aree di attacco – Fonte: Haaretz

Come ha sottolineato il portavoce militare dell’IDF, Yoav Mordechai, l’attacco contro al-Jaabari segna “l’inizio di una campagna per colpire Hamas e le organizzazioni terroristiche a Gaza in modo da riportare la quiete nel Sud di Israele”. Lo scontro tra Israeliani e Palestinesi, con il passare delle ore assomiglia però sempre più ad una vera e propria guerra e la situazione potrebbe presto aggravarsi se Tel Aviv decidesse un attacco via terra con il rischio di scatenare violentissime reazioni nell’intero Medio Oriente. Netanyahu, parlando alla tv pubblica dopo gli attacchi aerei su Gaza, ha affermato che l’esercito è pronto a estendere le operazioni anche alla fanteria, se necessario. Anche diverse fonti dell’IDF (tra cui il Capo di Stato Maggiore Benny Gantz) hanno confermato l’avvio entro pochi giorni di un’operazione di terra a Gaza. Così, se da un lato il Generale di divisione Eyal Eisenberg, responsabile della Difesa del Centro e del Sud del Paese, ha informato le autorità locali in un raggio di 75 km dai confini della Striscia di Gaza di “prepararsi ad almeno 7 settimane di battaglia”, dall’altro, la 84esima brigata Givati di stanza nel Negev è stata già allarmata per coordinare eventuali azioni di terra nella Striscia.

Mentre il livello del conflitto a Gaza cresce a livelli esponenziali, la diplomazia si è subito attivata dimostrandosi inerme dinanzi all’escalation di violenze. Egitto e Israele hanno richiamato in patria in segno di protesta i rispettivi Ambasciatori. Le diplomazie di Turchia, Qatar, Egitto e Stati Uniti stanno cercando di trovare lo spazio per una tregua tra Israele e Hamas, mentre Washington e Il Cairo stanno premendo rispettivamente su Israele e Hamas perché il primo non attacchi con le truppe di terra e il secondo accetti una tregua. Mursi, inoltre, ha inviato venerdì 16 ottobre il suo Premier Hisham Qandil nella Striscia di Gaza per cercare di raggiungere un difficile cessate il fuoco. Intanto, nel mondo musulmano si è levato un coro di proteste contro l’azione militare israeliana, mentre i leader europei, tranne il Cancelliere Merkel che si è espressa favorevolmente in merito al ruolo di mediazione egiziano nella crisi, non hanno preso una posizione ufficiale. Obama, che si è schierato come da tradizione dalla parte israeliana, è stato duramente criticato per aver sostenuto eccessivamente “il diritto all’autodifesa di Israele”. Al di là delle critiche, la dichiarazione di Obama sembrerebbe muoversi lungo la strategia del “male minore”: ossia dare via libera a Israele su Gaza per impedirle di attaccare Teheran e scatenare una crisi internazionale di proporzioni ben maggiori. Intanto, lo stesso nemico iraniano, pur condannando gli attacchi israeliani con la tipica retorica anti-sionista, è rimasto sino ad ora ai margini delle tensioni forse anche perché più preoccupato a risolvere i propri problemi interni.

Questa è la cronaca dei fatti ma cerchiamo di analizzare in profondità i vari perché di questa nuova spirale di violenze nella Striscia di Gaza. Perché attaccare ora un avversario come Hamas che non ha la forza neanche minimamente paragonabile a quella di quattro anni fa? Questo attacco vuole essere un messaggio verso l’Iran, l’Egitto o gli Stati Uniti? Perché voler destabilizzare ulteriormente un quadro regionale già alquanto complicato e suscettibile di repentini cambiamenti da un momento all’altro? Vi è una relazione tra l’attacco a Gaza e l’elezione del 22 gennaio in Israele? Ed, infine, questo attacco è davvero una rappresaglia verso Hamas o anche e soprattutto un messaggio verso Mahmoud Abbas che aveva rilanciato la candidatura palestinese di “membro osservatore” alle Nazioni Unite? Tante domande a cui è difficile dare una risposta univoca e dietro le quali si nascondono più verità. Ma proviamo a fare un po’ di ordine.

Oggi come quattro anni fa, “Piombo Fuso” venne lanciata subito dopo le elezioni presidenziali USA e prima del voto (allora a febbraio, oggi a gennaio) in Israele. Tra due mesi, infatti, Israele va alle urne e per la destra nazionalista israeliana il terreno più favorevole per guadagnare consenso elettorale è quello della sicurezza. Scatenare una guerra contro Hamas avrebbe come conseguenza favorevole per Israele quella di compattare il fronte interno distogliendolo dai problemi reali (disoccupazione, recessione economica, aumento del prezzo degli alloggi e del carovita) e favorendo, invece, l’alibi dello spauracchio palestinese, benchè lo stesso Netanyahu non avesse fatto minimamente menzione durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nello scorso settembre. Allo stesso tempo, l’omicidio al-Jaabari e la rappresaglia militare israeliana scatenata su Gaza potrebbero favorire anche Hamas sul terreno che più le si addice, quello della lotta armata, cosa che le darebbe l’opportunità di far dimenticare i ripetuti fallimenti del movimento islamista come forza di governo sul territorio e come autorità politica in grado di controllare le azioni dei diversi gruppi estremisti presenti nella Striscia. Quindi un possibile scontro armato darebbe ad entrambi credibilità dinanzi ai propri popoli nascondendo i rispettivi problemi interni e favorendo un’immagine da vittime della situazione dalla quale trovare vantaggio.

Sistema di funzionamento di Iron Dome – Fonte: BBC

Tuttavia, il contesto interno ed esterno ad Israele oggi è totalmente differente da quello del passato. Se all’epoca di Piombo Fuso il Medio Oriente sembrava una regione relativamente “calma” e poco suscettibile a cambi radicali, oggi il panorama locale è totalmente cambiato e in continua evoluzione. In Egitto non comanda più il tacito e compiacente Hosni Mubarak, ma al potere sono saliti i Fratelli Musulmani e Mohammed Mursi. Quest’ultimo potrebbe sfruttare le tensioni tra Hamas e Israele per rilanciare e rafforzare la politica estera egiziana rivitalizzando la battaglia ideologica della questione palestinese per tornare a riconquistare quel ruolo di leader del mondo arabo-musulmano. Inoltre, nonostante la sua posizione di condanna rimanga ferma, il Presidente egiziano sta tentando insieme ad Erdoğan e al-Thani una difficile mediazione per convincere i militanti di Hamas ad interrompere il lancio di razzi ed instaurare una tregua momentanea. Nonostante ciò, pare difficile al momento ipotizzare un cessate il fuoco, soprattutto se confrontato con la volontà israeliana di operare militarmente attraverso una mobilitazione di 75mila riservisti da attivare lungo i confini della Striscia di Gaza. Se Hamas pare essere incerta sulla strategia da perseguire, la scelta di Tel Aviv di mobilitare così tanti riservisti fa pensare che Israele possa prepararsi a breve ad una guerra di proporzioni molto più ampie rispetto alle ultime operazioni militari. Infatti, quattro anni fa per l’operazione “Piombo Fuso” vennero richiamati 10mila riservisti, mentre nel 2006 per la campagna nel Sud del Libano ne furono mobilitati circa 60mila.

Infine, tra “Cast Lead” e “Pillar of Defense” esiste una grande differenza: se nel 2008 il conflitto a Gaza non riuscì a creare una certa empatia tra i popoli arabi del Medio Oriente e soprattutto tra i fratelli palestinesi della Cisgiordania, oggi invece nella West Bank e a Gerusalemme Est ci sono stati diversi scontri pesanti tra manifestanti palestinesi e coloni ed esercito israeliani. Tuttavia, “Pillar of Defense” rischia di essere anche un pericoloso detonatore regionale in grado di ampliare lo scenario di guerra non solo a Gaza, ma alla Cisgiordania e alla regione circostante. Questo potrebbe essere tanto più vero se Abu Mazen, come ha già ribadito a settembre nell’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, proporrà per i popoli palestinesi uno status di “Stato non membro” nel consesso ONU. Non a caso gli Stati Uniti avrebbero minacciato il ritiro degli aiuti economici all’ANP nel caso in cui venisse perseguita ancora questa strada. Così facendo, però, gli USA declinerebbero definitivamente il loro ruolo di potenza nell’area a favore di altri attori internazionali (Cina? Russia?) lasciando Gaza e la West Bank in mano al nuovo ed intraprendete Egitto e ai petro-dollari delle monarchie del Golfo (Qatar e Arabia Saudita in testa).

In attesa di capire quale decisione scaturirà da queste lunghe trattative a cui parteciperà in queste ore anche il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon e quale strategia intenderà intraprendere Hamas, sarà molto importante capire quale opzione deciderà di perseguire Tel Aviv. Mai come nella sua storia, Israele ha nelle sue mani la possibilità di decidere non solo il suo destino, ma anche quello dei suoi vicini.

* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)


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