"Da qui tutto è lontano" di Pierluigi Mele (Lupo editore)
Questa non è una recensione, e non lo saranno neppure quelle che farò nei prossimi giorni. Sono semplici inviti alla lettura. Un incipit ha il potere di coinvolgere o lasciare indifferente un lettore. Potrei *pompare* un libro che mi è piaciuto, farlo con eloquenza o retorica, elegantemente o con furbizia. No, non mi piace.
Desidero quindi fare parlare le parole degli autori, e oggi inizio con Pierluigi Mele e il suo romanzo “Da qui tutto è lontano” (Lupo editore).
Mele è nato in Svizzera nel 1967 e vive nella provincia di Lecce. Si occupa di formazione e pedagogia del teatro. Godetevi l’incipit e se vi piace acquistate questo romanzo che ho avuto il piacere di apprezzare.
“Tra poco accenderanno i neon in tutte le stanze e i corridoi. I neon anestetizzano l’umore. A cominciare dall’intermittenza che esalano prima di dar luce. Accendi una candela. Se un novizio si lamenta, accendi una candela, ripetono. Con le luci sparate. Quando parlano così, io vedo come muovono le labbra. Gelidi come i neon. Però non mi offende il loro modo di parlare. Non li ascolto. Non ho opinioni né sentimenti degni di nota. Tutto ciò che ho realizzato nella vita è accaduto senza quasi l’intenzione. Che sciocchezza credere alle storie di uomini esemplari. Con questo spirito ho servito Mezzaluna. È tutto nei taccuini. Una notte, di ritorno dalla scogliera, seduto allo scrittoio, il lume acceso, le parole hanno cominciato a fluire da sole sulle pagine bianche. A riportare tutto ciò che era stato poco prima. Da quella notte sono rimasto il segreto scrivano di Mezzaluna. Ho sempre pensato a lui come ad uno scenario della natura, un luogo incantevole, inutile insieme. Dipendeva dal mio stato d’animo farmelo piacere. Accade, a Torre S. Emiliano. Una baia aspra, selvaggia, su cui le nubi frignano come prefiche e poi ecco, ogni pianta deflagra, nottetempo i colori, i profumi, in un silenzio che scivola in bocca come granita. Il mito qui soffia leggende e s’impasta con le trame dell’oltremare. Approdi d’eroi, decollati dalle scimitarre, arcane pitture, catacombe, caverne. Qui spendevo la giovinezza alla macchia succhiando bacche di salvia, e venivo alla piana dove le donne tessevano bevendo infusi di corteccia contro il veleno di scorpioni. In cerchio nelle corti fra un canto e un parlottio. Le guardavo e non capivo. Quella loro maestria al telaio così semplice e composta, come potesse trasformarsi in possessione, quando deliravano d’un tratto sulle aie, seguiti da musici fattori. Immaginavo fosse tutta una finzione addolorata, e forse lo era. Madri e figlie del travaglio a dimenarsi fra la terra, ossesse fino al coma. Non capivo e le guardavo. Oggi non più. Oggi sorveglio l’orizzonte da vecchio guardiano, nel teatro che fu, nell’arena dei miei occhi. Forse abbatteranno la Torre o ci costruiranno attorno uno scempio. Ne è zeppa la piana. Non dovremmo mai nominare i luoghi amati, qualcuno prima o poi li sfregerà”.