di Rina Brundu e Giuseppe Leuzzi.
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Il direttore non è un uomo malvagio. Sono convinto che sia davvero interessato a capire: del perché non ne ho idea.
«Così hanno bussato alla porta?» borbotta passandosi una mano bianca e grassoccia sulla corta chioma ingrigita e crespa.
«Non hanno, ha bussato. L’avvocato Giusti ha bussato».
«L’avvocato Giusti?».
«Dello Studio Legale Dinari: sono loro che si sono occupati delle disposizioni testamentarie del prozio».
«Mezzo secolo fa?».
«Più di mezzo secolo fa. Ma sono arrivati a me dopo la morte dell’erede diretto. Un qualche parente, non mi chieda chi».
«Capisco».
«Davvero, direttore, capisce?».
Devo dargli atto che non desiste facilmente, ignora il sarcasmo e continua: «Poi cos’è successo?», dice accomodandosi stanco alla scrivania.
Anche a me riesce difficile respirare in questa stanzetta rivestita di scaffali colmi di libri, illuminata da un minuscola vetrata che funge da finestra: chiusa!
«L’ho fatto entrare», spiego ricordando quella sera di fine settembre, «era un uomo sulla cinquantina, abbronzato, capelli neri, una strana cicatrice sul viso. Non si sedette. Depose la cartella sul tavolo, ne trasse l’atto di proprietà e venne subito al punto».
«Ottimo!» bofonchia il direttore.
«Disse che mi trovava appena in tempo, dopo lunghe ricerche».
«Appena in tempo?».
«Altri due giorni e l’eredità sarebbe passata ad una qualche opera di carità indicata dal prozio».
«Capisco», mormora, ripetendosi.
«Così ho firmato e lui se n’è andato».
«Ha firmato?» Finalmente il filo apatico si è spezzato nella voce del mio inquisitore: «Lei firma un documento legale, così?».
«Be’, non così».
«Come, allora?».
«L’avvocato ha spiegato i termini della transazione. Lo rivedo come fosse ieri: la bocca che parlava e parlava, la chioma corvina perfettamente pettinata».
«Dottor Pierre, cos’ha detto l’avvocato? Mi dica soltanto cos’ha detto!».
«Questa è la parte che non ricordo con precisione», ammetto di mala voglia.
«Non ricorda?».
«No, purtroppo. Cerchi di capire: mi ero appena alzato, avevo la mente presa da altri pensieri. Il mal di testa mi torturava da giorni. E poi c’era Eleonora: stavo pensando ad Eleonora. Pensavo solo a Eleonora, sebbene nel momento non ricordassi per quale motivo preciso. Avrei messo la firma su qualsiasi pergamena pur di liberarmi dell’intruso».
Il direttore non commenta, si limita a fissarmi, il volto tra le mani, i gomiti sul tavolo. Odio questo suo modo scortese di costringermi a spiegare.
«Le assicuro che non avevo scelta», mi difendo. «Questo lo so bene: non avevo scelta. Dovevo firmare e salpare subito per l’isola, pena la perdita del cespite ereditato. L’ho già fatto presente, mi pare».
«Sì, lo ha specificato chiaro».
«Questa è pure la ragione per cui sono partito di corsa. Ma ho lasciato una nota al collega. Non sono scappato, come sostiene lei. E quell’insetto molesto dell’ispettore Rovati».
Silenzio. Il modo di dettare silenzio del direttore è un altro dei trucchi del mestiere che mi irritano. M’infastidiscono pure le mie reazioni automatiche alle sue strategie, perché io non debbo spiegare nulla, non debbo giustificare nulla. A nessuno. Eppure mi sento in dovere di farlo: «La denigrazione professionale da parte di un bellimbusto impomatato come Reutmann?» domando con una risata che sento roca e forzata. «È questo che pensa mi abbia costretto alla fuga, direttore?» gli chiedo ancora senza dargli il tempo di esprimersi. «Le assicuro che Reutmann è un idiota, è sempre stato un idiota».
«Eleonora però la pensava altrimenti».
Qui il narratore avrebbe l’obbligo di spiegare chi è Eleonora. Ma non mi va di parlarne oggi. Soffro le mie conversazioni quotidiane col direttore, insieme alle immancabili crisi che ne seguono. Soffro quando mi viene a mancare l’aria e mi prende il fremito incontrollabile che mi costringe a rotolare sul pavimento come una particella senza peso vagante in un universo che è il nulla. In questa occasione però lui non si allarma con la solita solerzia. Invece si alza, punta entrambi i palmi delle mani sulla scrivania e sibila fissandomi: «Il contratto, dottor Pierre, voglio vedere il contratto! E se mi dice di nuovo che l’ha lasciato tra quelle rocce giuro su quanto mi è più caro che la sbatto in isolamento, a vita!».
Ci sono, tra i modi di dire che si pronunciano sbadatamente, alcuni pieni di senso. Anche se non sempre. Si «dice» nel contesto e nel paratesto, più che nel testo. Ma succede pure di non avere voglia di difendersi, di fronte a un’aggressione, o che si pensa tale. Di ribattere, far valere i propri argomenti. Per stanchezza, o per abulia, che non sempre è una colpa.
Allo stesso modo si può essere stanchi, per evitare, anche se non del tutto, il discorso obbligato su Eleonora, delle fiamme d’amore, o della bellezza, che sempre le sottende. Si può essere stanchi dell’avventura. Stanchi di ripartire daccapo. Stanchi. L’innamoramento è sempre della bellezza e della verità. Atto forse istintivo, ma comune: è un riconoscimento. Su fondo filosofico.
Nell’Origine della disuguaglianza Rousseau conclude triste: «A che serve la bellezza dove non c’è amore?». È dare l’ingegno, si risponde, a chi non parla, l’astuzia a chi non traffica. Non c’è merce senza scambio, né significato, delle cose o delle persone.
L’amore è un gioco di specchi che ci rinviano, sotto le tante sfaccettature con cui si presenta l’ignoto, l’immagine di chi si ama, seppure proiezione di se stessi, del desiderio di vita. La bellezza è in questo onesta. La bellezza è promessa di felicità. Lo dice Stendhal, con Nietzsche, e non ha senso: è il solito tarlo del costruire, investire, differire, non si sa che cosa per non si sa chi, che magari si dice filosofia. Le bellezza è felicità. È verità: il corpo è democratico, la bellezza è aristocratica, è l’arte. Ma è vero che la ricerca della verità spesso è un falso scopo. Il falso scopo è in guerra il manufatto fisso e acuminato, un campanile, una ciminiera, il cipresso solitario, su cui i sistemi di puntamento fanno perno, ma per indirizzare il tiro in tutt’altra direzione. Approssimando lo scopo vero con aggiustamenti progressivi. Che è un po’ pure il lavoro di chi deve imporre – imporsi? – una verità. E probabilmente di chi vuole raccontarla, anche lo scrittore procederà per aggiustamenti – di certo procederà per falsi scopi, anche se non lo sa o non lo ammette.