Da SIDHE – L’anima non sente il dolore

Creato il 15 dicembre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Plinio mi mancava. Non potrei dire che fossi addolorato della sua morte, era un uomo in età, la morte a un certo punto della vita si dà per scontata. Benché, che cos’è il dolore? Non quello fisico, del corpo ulcerato, dei nervi che si contraggono incontrollabili. È una perdita, si dice: l’inattività sarebbe già un dolore, proprio perché impedisce il contatto col mondo, con le cose. L’anima non sente il dolore, diceva Montesquieu, ma una certa difficoltà di esistere. Il dolore è un male locale che ci porta al desiderio di vederlo cessare: il peso della vita è un male che non ha sede particolare e ci porta al desiderio di veder finire la vita. Dunque, il dolore è il senso della morte – a condizione beninteso di avere un’anima. È un pensiero che porta lontano. Il dolore resta incomprensibile, come la violenza, o il riso. Ma la cosa è pure semplice: di Plinio mi mancavano le chiacchierate, gli incontri alle scogliere o nel laboratorio.

Mi recavo a quel raro cimitero ogni giorno. Mi sedevo su una roccia affiorante sulla collina e gli parlavo. Altre volte me ne stavo fermo e muto e da quell’altezza mi limitavo ad ammirare la costa. Non tornai più alle grotte, non avevo nessun desiderio di rivedere Aisling. Non mi mancava.

La spia che non fossi l’unico visitatore della tomba solitaria, fu un delicato mazzolino di fiori di campo che trovai posato alla base della croce di ferro. Fu un attimo, ma credetti di vedere anche la figura minuta di Margherita svanire veloce tra i campi a valle. Era lieve e quasi indistinta, un’ombra. I fiorellini avevano petali e colori leggeri che in quella terra desolata parevano lacrime di diamanti.

Per la prima volta sentii sulla pelle il tormento che provoca la lontananza fisica. La lontananza di Margherita da Plinio, di Plinio da me, la mia da Margherita. Non avevo neppure dimenticato l’unico filo teso tra le dita dell’isolana, il cui lapidario monito pendeva sul mio fato come una spada di Damocle. Nel mio campo i simboli sono realtà, seppure matematiche, mentre nell’arte si vogliono allusioni, di una cosa che è un’altra. Ma la pittura in realtà li fissa, non si possono aggiornare in tempo reale. In questo caso, però, l’indicazione era precisa.

Anche le ultime parole di Plinio, l’urgenza nella voce flebile quando mi aveva raccomandato di lasciare l’isola, di partire prima che fosse troppo tardi, di saltare sul battello del capitano Bob e di non guardarmi mai più indietro, erano impresse a fuoco vivo nella mia mente. Ma come avrei potuto andarmene? Come avrei potuto lasciare Margherita in balìa delle folli ossessioni del genitore putativo? Della sua schizofrenia? Di quella pazzia che può corrompere la mente di ogni essere che non ha mai conosciuto altro orizzonte oltre quello scurito, raramente tagliato tra cielo e mare, che avviluppa l’isola e non la fa respirare? E poi non volevo andarmene comunque, le rocce erano diventate parte di me.