Da SIDHE – Una proposta

Creato il 11 settembre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Ticchetetac, ticchetetac, ticchetetac.

La mia stanza è triste, tinteggiata di un bianco ingrigito. L’arreda una branda di ferro, un lavandino d’altri tempi e un comodino su cui è posata una antica sveglia a braccia allungate: ticchetetac, ticchetetac, ticchetetac. La sveglia produce un rumore distinto, monotono, che rimbomba fastidioso nell’ambiente chiuso. Un altro dei trucchi del direttore per tenermi ancorato alla realtà, immagino. A volte lo stratagemma funziona, sebbene a perdersi siano soprattutto i ricordi dei miei giorni al CERN, di Reutmann e di Eleonora. Riviverli richiede, a momenti, la fatica che costa indossare un calzino bagnato, un abito sdrucito e sporco. Il direttore è convinto che sia importante mantenere alta la concentrazione, recuperare ogni istante vissuto, come se fosse facile scordare anche un solo momento trascorso a Sidhe, in compagnia di Margherita, di Plinio e degli spiriti della roccia. Capisco cosa intende però. Si dice che la memoria è bella perché è selettiva, si può sempre mettere da parte ciò che dispiace. Ma pure il contrario è vero. I ricordi allora vengono col ticchettio della sveglia, che si fa rumore, anche assordante, e ossessione, senza una ragione precisa.

Toc-toc, toc-toc, toc-toc.

Ora questo non è più il suono della sveglia. Bizzarro, chi potrebbe bussare alla mia porta? Medici e infermieri entrano senza troppe formalità e per me è sufficiente sentire la chiave che gira nella toppa per sapere che qualcuno sta per entrare. Mi hanno spiegato che questa specie di isolamento piantonato è necessario. Dopo quanto è accaduto non si fidano. Ma cosa è accaduto? Ancora la storia dell’incidente al CERN? Ancora le chiacchiere di quell’imbecille di Reutmann? Ancora le finte coccole di Eleonora? Ancora, cosa?

L’uomo che chiede permesso è un uomo alto, di costituzione robusta, porta i capelli bianchi corti, ben pettinati; sotto il camice candido indossa giacca e cravatta di qualità dozzinale. Entra nella mia stanza per la prima volta da quando sono ricoverato, prende l’unica sedia e l’accosta alla branda. Lo scruto con attenzione ma non lo riconosco subito, così come non riconosco l’insolito sguardo compassionevole e bonario.

«Direttore?» mormoro, infine, balzando a sedere sul letto. «Che cosa ci fa lei qui?». Mi giro verso la porta chiusa, quasi temendo l’improvviso ingresso di un infermiere che potrebbe ristabilire l’ordine.

«Si tranquillizzi, dottor Pierre, ho ancora qualche privilegio nella mia clinica».

Sono inquieto. Non comprendo il motivo della sua presenza e non mi fido. Lo osservo come avessi davanti una grottesca sanguisuga pronta a divorare il miglior pasto della giornata.

Lui si schiarisce la gola:«Sono venuto per farle una proposta, dottor Pierre, e sperare che vorrà accettarla».

«Una proposta?».

«Vorrei dimetterla perché lei è guarito, dalle malattie che si possono curare qui, intendo. Ma…».

C’è sempre un ma, l’ho imparato gestendo complicate relazioni interpersonali con il supervisore Papetti.

«Deve seguire un adeguato percorso convalescenziale» continua. «Che ritengo sia meglio portare avanti in un’atmosfera più familiare».

«Familiare?».

L’uomo si sistema sulla sedia, appare imbarazzato. Per la prima volta noto antiche rughe, segni, tracce di un dolore profondo che ne marcano il volto non più giovane.

«Dottor Pierre», riprende, «non le nasconderò che la sua avventura, se così la posso chiamare, mi ha colpito. All’inizio ho pensato che lei fosse un’altro dei tanti cristi senza storia e senza memoria che arrivano in questo luogo. Gli altri, coloro che rimangono fuori, li chiamano pazzoidi, matti, esaltati, e a volte è pure vero». Mentre mi parla pare portare addosso il peso della disperazione che deve avere testimoniato in una intera vita professionale. Si scuote subito e torna al presente abbozzando un sorriso timido: «Invece, dopo avere ascoltato la sua storia mi sono convinto della sua straordinarietà».

Sarà davvero così?

«Ho letto parecchi dei suoi studi» continua. «Li ho letti con attenzione, e ho visto che sono stati pubblicati nelle riviste scientifiche più prestigiose». C’é una luce ammirata nello sguardo; una luce che tanto tempo fa avrebbe lusingato il mio orgoglio, ma che dopo l’esperienza sull’isola mi arriva sminuita dall’ombra opaca che inevitabilmente marca tutto ciò che non è importante.

Il direttore nota la mia indifferenza ma prosegue deciso: «Lei è un uomo brillante, dottor Pierre. Il suo posto, ne converrà, non è qui. Certo non dopo l’esperienza che ha vissuto».

Finalmente un barlume di speranza; mi accorgo che pendo dalle sue labbra come l’assetato che tenta di stillare acqua da una sorgente inaridita.

«Dicevo che non la posso dimettere in senso tecnico», aggiunge. «Lei abbisogna ancora di un’adeguata assistenza e di un periodo di riposo che, volendo, potrebbe trascorrere a casa mia. Ne sarei onorato. Abito da solo, con la signora Marta, la mia governante. La casa non è il palazzo di Sidhe, ma è grande abbastanza».

Si alza, riaccosta la seggiola al muro e fa per accomiatarsi: «Mi rendo conto che la mia proposta può averla sorpresa, dottor Pierre; le assicuro però che, qualora lei l’accettasse, a trarre maggior giovamento dal tempo trascorso insieme sarei soprattutto io».

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