Spesso noi insegnanti dichiariamo di non saper contare, più precisamente di non voler contare fino a dieci. Lo dichiariamo nelle riunioni collegiali, durante i colloqui coi genitori e alle volte perfino con gli alunni. Non lo facciamo tutti a dire il vero, ma in molti dichiarano, senza appunto farne mistero alcuno, che non si sentono di attribuire il dieci a nessun alunno.
Può succedere di non averlo mai dato, giacché è comprensibile che un alunno che meriti dieci, può essere che non lo si abbia ancora incontrato, ma spesso tale dichiarazione è relativa proprio alla possibilità di dare il massimo voto nella scala da uno a dieci. In realtà ogni singola istituzione, almeno alla scuola Primaria, stabilisce la base da cui partire, se dal tre o dal quattro, e il limite massimo è ovviamente fissato ovunque al dieci.
I motivi adotti sono i più disparati, alcuni partono dall'idea che un dieci è un voto troppo impegnativo perfino da portare appresso, che richiede una dimostrazione di competenza pressoché impossibile da raggiungere in una persona che impara.
La seconda affermazione si presenta già con una incongruenza di fondo: il dieci non significa andare a cercare la competenza di chi ha già imparato, di chi sa già, ma di chi sta imparando. Non implica la perfezione estrema, tra l'altro non riscontrabile nemmeno in chi gli studi li ha finiti, ma un complesso di cose che definiscono un quadro di apprendimento in evoluzione, certamente caratterizzato da estrema capacità a far bene.
La conseguenza immediatamente connessa alla dichiarazione che il dieci è un voto non raggiungibile dallo studente, benché previsto tra le possibilità offerte dalla valutazione è una deprivazione generale degli obiettivi raggiungibili dalla classe.
Mettiamo il caso che in una classe, di qualsiasi scuola, dalla primaria alle superiori, vi siano alunni motivati a provare a raggiungere non tanto il voto, quanto gli esiti migliori possibili che quel voto rappresentano, supponiamo che l'insegnante dichiari "Io non darò mai il dieci, perché non lo ritengo opportuno e non ritengo sia una meta raggiungibile da nessun alunno". Ebbene un'affermazione del genere è un limite molto forte per chiunque voglia cimentarsi nell'impresa: non già nel raggiungimento del dieci, ribadisco, che è un numero e come tale vale, ma nel significato che ha in rapporto al raggiungimento degli obbiettivi personali.
Implica inoltre il mancato rispetto dell'accordo formativo che seppure unilateralmente proposto dall'istituzione, prevede i voti da uno (o due o tre o quattro) a dieci.
Differente è invece il discorso per coloro, che sempre per scelta operativa, non attribuiscono il dieci dal primo quadrimestre, e preferiscono la sicurezza al secondo quadrimestre quando il calo di metà anno, fisiologico in tantissimi alunni, sarà scongiurato e quindi evitano di abbassare i voti, cosa che non è mai un'azione facile da comprendere per le famiglie.
Per contro anche l'utilizzo di voti troppo bassi nella valutazione ottengono lo stesso effetto di deprivazione, perché finiscono con il rappresentare un limite che appare all'alunno, già in difficoltà, un valico insormontabile. E d'altronde mettere un due o un tre in pagella, non è significativamente più grave di un quattro, ma riveste un significato simbolico d'insormontabilità. Un quattro è già di per sé una grave insufficienza ma con ancora un varco aperto verso il miglioramento.
Ovvio che attribuire il due o il tre ha lo scopo di segnalare la gravità di una situazione, ma porta inevitabilemte anche una remota e quasi inesistete possibilità di rimedio.
Certo si può obiettare che i numeri sono lo specchio di un impegno di una resa scolastica, ma accanto ai numeri e al loro utilizzo si pone sempre il problema dell'effetto che hanno sugli alunni. E non vale solo per gli alunni della Primaria, anzi vale molto di più per gli alunni dei gradi successivi.
Personalmente ho sempre interpretato scelte didattiche di questo tipo, nel quale non di rado mi sono imbattuta, come caratterizzate da avarizia. Tralascerei il mancato rispetto dell'accordo educativo, e mi soffermerei proprio all'avarizia nel riconoscere i talenti, a riconoscere quelle capacità che il dieci contempla, quando vi sono le condizioni ovviamente, che si delinea come una mancata restituzione. Così come l'utlizzo del voto eccessivamente basso mi appare un aggravante di pena, un rimarcare sua situazione chiudendo prematuramente un cerchio. Un negare, insomma, in entrambi i casi la possibilità, di una scuola che promuove apprendimento.
In sostanza i voti andrebbero attribuiti per quali sono e quando servono, non si comprano a peso, non li paghiamo e se da un canto essere eccessivamente larghi di manica procura un danno, dall'altro l'avarizia nella valutazione sottrae qualcosa all'alunno, anche in termini di obbiettivi raggiungibili e procura danno al nostro operato perché ci impedisce di riconoscere le capacità che in fondo dovrebbe, almeno in parte essere figlia anche del nostro insegnamento. ©
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