Esattamente un anno prima era scoppiata in Egitto la seconda grande rivoluzione – dopo quella tunisina – della Primavera Araba. A Piazza Tahrir, la piazza principale della capitale, migliaia di manifestanti si erano raccolti per protestare contro il regime di Mubarak, contro le tremende condizioni di vita della popolazione e a favore della libertà di pensiero ed espressione. Quando prenotai il mio volo per Città del Capo dovetti fare attenzione a evitare lo scalo al Cairo e optai invece per fare tappa a Tripoli. Ora invece eccomi in Egitto, mentre a pochi chilometri di distanza la Libia era sconvolta da una feroce guerra civile che non cessava di richiedere il sanguinoso tributo di una popolazione al centro degli spietati interessi occidentali.
Ora Il Cairo era una città sicura, ma in piazza continuavano le manifestazioni di quanti non volevano che la loro lotta risultasse vana. Da un paio di giorni si era insediata in Parlamento la nuova Assemblea del Popolo guidata dal partito dei Fratelli Musulmani, Libertà e Giustizia, ma fino all’elezione del nuovo presidente il potere sarebbe continuato ad essere in mano alla giunta militare che aveva deposto Mubarak. Il secondo partito era risultato essere quello dei salafiti, i musulmani ultra-ortodossi che invocano a gran voce la sharìa e il ritorno al più antico e bieco tradizionalismo islamico, cacciando le donne dal mondo dell’istruzione e del lavoro, eliminando il consumo di alcolici e riducendo drasticamente il mercato del turismo, ammettendo solo quello di matrice religiosa. Uno scenario assolutamente tragico, soprattutto se ripenso a quante ore ho passato in Piazza Tahrir tra manifestanti, giornalisti e accademici che tenevano comizi sulle libertà civili e personali, sul ruolo della donna, l’importanza dei giovani, del futuro, del progresso. Ancor più drammatico se penso che la maggior parte delle persone che avevo visto intorno a me erano giovani sotto i quarant’anni, in gran parte studenti e giovani professionisti, moderni, intelligenti, liberi. E tante, tantissime donne, non solo tra la folla, ma anche sui palchi dei comizi a leggere dichiarazioni, a discutere, a lottare. E ora tutte queste persone correvano il rischio di essere nuovamente messe a tacere da un governo dispotico e autocratico.
Un sabato, giorno festivo della settimana per gli egiziani, sono sceso in strada e mi sono diretto verso Tahrir. La piazza era gremita di manifestanti. Mi sono aggirato per un po’ tra di loro, cercando di cogliere il senso di alcuni comizi, ma il mio scarso livello di arabo non mi permetteva di capire granché. Così sono tornato sui miei passi e ho fatto un giro in città in cerca di un posto dove pranzare. Quando nel pomeriggio sono tornato verso Tahrir la scena era piuttosto drammatica: centinaia di poliziotti in assetto anti-sommossa avevano circondato i manifestanti che si erano asserragliati al centro della piazza. E altrettanti poliziotti erano in attesa sui veicoli pronti a intervenire. Dalla piazza gli piovevano contro insulti e sberleffi, e i ragazzi in divisa, tutti giovanissimi, guardavano fisso davanti a loro, forse cercando di non far trapelare l’incertezza o la paura. Erano in attesa di un ordine. Sono rimasto ad assistere ai margini per almeno quaranta minuti, quando improvvisamente gli agenti che attendevano sui veicoli ne sono usciti e sono andati a raddoppiare il cordone intorno ai manifestanti. Un’altra snervante attesa, poi finalmente l’ordine: ritirarsi. Senza colpo ferire, l’impressionante forza di polizia è ritornata ai proprio veicoli e ha lasciato la piazza, mentre dai manifestanti giungevano insulti e canzonature.
Era evidente che la giunta militare sapeva di avere gli occhi di tutto il mondo puntati addosso, non si poteva permettere di fare sfoggio di indiscriminata violenza come nei bei tempi andati. Ritenevo essere questo almeno un esiguo traguardo raggiunto dalla rivoluzione fino a quel momento. Non avrei mai pensato di sentire di nuovo parlare di torture, arresti preventivi e uccisioni solo due mesi dopo.
Leggi la puntata precedente: a Esna non serve prenotare camere.
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sudafrica… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.
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