Alessandria – o Alex, o Eskandrìa – sarebbe stata la mia ultima tappa. In realtà mi sarebbe piaciuto arrivare fino in Tunisia e prendere un gommone per Lampedusa, ma avrei dovuto attraversare la Libia ancora sotto il fuoco della guerra civile, e il mio senso dell’avventura non bastava a una tale avventatezza, non senza la minima preparazione né uno straccio di appoggio logistico. Non volevo essere l’idiota che si è fatto ammazzare senza apparente motivo in una guerra in cui non c’entrava nulla.
Fantasticavo di proseguire la marcia terrestre fino in Turchia, e poi arrivare in Grecia e sui balcani, ma in mezzo c’erano Giordania, Libano, Israele e Palestina. Smaniavo di visitare quei luoghi, ma non allo stremo delle mie forze fisiche e psichiche, in preda all’ansia di tornare a casa che mi avrebbe impedito di godermi tutto ciò che valeva la pena fare e vedere. Quello sarebbe stato un altro viaggio, ne ero certo.
Così mi sono messo in treno verso Alessandria. La metropolitana a Tahrir alle otto del mattino era piuttosto affollata, ma sono riuscito ad arrivare a Ramses Station senza troppi disagi. La prima classe per Alex è comoda e spaziosa, aria condizionata e servizio ristorazione. Io ne ho approfittato per dormire. In meno di tre ore siamo arrivati alla prima fermata cittadina, dove scendono solo impiegati, burocrati e uomini d’affari. Noi turisti arriviamo fino in centro. Il lungomare è a circa un chilometro di distanza. Con lo zaino il minibus è fuori discussione. Avrei potuto camminare, ma mi sono fatto convincere a prendere un taxi per dieci lire fino all’albergo.
Alessandria non era come me l’aspettavo. Sembrava uguale a una qualunque altra città egiziana, con traffico caotico, rumore dei clacson, inquinamento… Il suo fascino bohémien sembra essersi diluito nei secoli e quello che resta della sua carattere cosmopolita – sopravvissuto alla rivoluzione anti-monarchica del 1951, ma estintosi dopo l’attacco congiunto di Israele, Regno Unito e Francia nel 1954 – è relegato ai nomi delle vie indicati in tre lingue diverse (arabo, francese e inglese), con grande soddisfazione dei turisti che non sanno mai quale indicare ai conducenti di taxi. Ma il rumore delle onde sul lungomare, i locali retro dove mangiare pesce e bere birra e le pipe ad acqua sulla spiaggia continuavano a trasmettermi delle buone vibrazioni. Inoltre c’era il canto del muezzin che ti sorprende in mezzo al mercato, i palazzi coloniali dall’aria decadente, i monumenti greci e alessandrini, il tè sulla spiaggia, i ristoranti di pesce e le bellissime donne velate spesso riportanti i segni di una commistione culturale senza dubbio oscurata dal tempo ma non del tutto esaurita.
Due sere di seguito ho notato macchine strombazzare per qualche matrimonio, e due notti di seguito sembrava che si fossero riuniti proprio sotto il mio balcone per urlare a squarcia gola, imitare musichette con i clacson e bloccare la via con le macchine. Ogni volta combattevo con la tentazione di scendere a vedere cosa stesse accadendo, ma mi sembrava di non riuscire più a lasciarmi coinvolgere da ciò che mi circondava, la testa era già in patria, niente di quello che vedevo riusciva a convincermi che c’era ancora una ragione valida per ritardare il mio rientro in Italia.
Era tempo di tornare alla realtà, ma volevo farlo nello spirito del viaggio che avevo intrapreso: senza volare. Mi sarei messo alla ricerca di una nave che mi riportasse in patria. Un altro piano destinato a fallire.
Leggi la puntata precedenta: alla scoperta della capitale egiziana.
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sudafrica… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.
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