Tempo di partire da Città del Capo, tempo di lasciarsi alle spalle un altro capitolo.
Non è un caso se i francesi – che non ci hanno mai azzeccato in nulla se non in questo – dicano che partire sia un po’ come morire. La vita che conducevo a Città del Capo sarebbe presto giunta a termine dopo svariati mesi intensi ed emozionanti, e non l’avrei mai più potuta riprendere, nemmeno se fossi tornato. Sarebbe stato diverso.
Lasciavo una città la cui bellezza toglie semplicemente il fiato. Table Mountain, che come un’enorme mano carezzevole la avvolge nella sua ombra e offre agli escursionisti paesaggi indimenticabili. Le spiagge affollate di turisti, sempre ventose, l’acqua di una freddezza gelida e rigenerativa. I pinguini, che forse non avrei mai più rivisto se non allo zoo, ecchiccavolo lo sapeva che in Sud Africa ci sono i pinguini e invece ci sono. Long Street, con i locali, le feste, gli ubriachi, le ragazze in cerca d’avventura. Nella mother town non manca davvero nulla, nemmeno il vino e il buon cibo. Nemmeno la magia.
Ma non era di questo che mi preoccupavo, in fondo ogni posto è unico e meraviglioso e le cose belle davvero sono tali per le emozioni incancellabili che ci trasmettono, non serve avercele sempre attorno. Quello che mi sarebbe mancato era il calore umano di questa città e della gente che vi abita. A parte tutti quelli che mi volevano pestare, derubare, sbudellare, o arrestare, in questa città straordinaria avevo conosciuto un gran numero di persone eccezionali, che mi avevano accolto come un membro della loro famiglia sin dal primo giorno, e tutti gli altri a venire non avevano mai cessato di stupirmi con la loro generosità, il loro entusiasmo e la loro incrollabile forza d’animo anche di fronte agli avvenimenti più devastanti. Questa è Africa, quando accade qualcosa di brutto puoi star certo che è molto, molto brutto.
C’era la dolce Elaine, l’anziana vedova che mi aveva affittato una camera per tutto questo tempo e che quando le ho annunciato che me ne sarei andato si è quasi commossa. Per il mio ultimo giorno ha preparato tutti i miei piatti preferiti – per un totale di circa 26 chili di carne – e mi ha abbracciato calorosamente prima di mettermi in mano un conto per le ultime due settimane che se lo sapevo andavo al Ritz. Michel, incrocio di tribù ancestrali convertitosi al rastafarianesimo, che per il semplice fatto che ero italiano mi chiamava scherzosamente playboy. Monica, che prima ha conquistato il mio cuore e poi se l’è fatto alla griglia. Ho anche provato a raccontarlo a Michel, ma il suo giudizio nei miei confronti non è cambiato. Poi ho scoperto che il playboy è lui, che ha circa mezza dozzina di fidanzate tutte perfettamente consapevoli dell’esistenza delle altre, e quindi non concepisce neanche lontanamente l’idea che un uomo possa soffrire per amore e quando gli narravo delle mie pene sentimentali probabilmente nella sua testa risuonavano dei versi incomprensibili.
E poi c’era Warren. Il mio fraterno amico Warren. Mi ha praticamente rimorchiato in un locale in centro e un paio di giorni dopo eravamo insieme in spiaggia a mangiare pesce in uno dei migliori ristoranti di Camps Bay, il Sand. Andavo a casa sua prima di uscire tutti insieme con i suoi amici, e finivo a dormire sul divano quando ero troppo ubriaco per avventurarmi verso la stazione da solo. Le sue attenzioni, per quanto garbate, erano però piuttosto inequivocabili, perciò una sera gli ho chiesto molto schiettamente: “Warren, ma tu sei gay?”. E lui: “No, non direi che lo sono.”
“Ma ti piacciono gli uomini.”
“Qualche volta.”
“Allora sei bisessuale?”
“Flavio, amico mio… io sono Warren. Nient’altro.”
Una volta mi ha chiesto di partecipare a un incontro a tre con una sua amica. Purtroppo non mi sono saputo convincere a superare le mie inibizioni, così ho declinato gentilmente. Quando il mattino della mia partenza mi sono svegliato a casa sua in centro – perché così mi risparmiavo i quaranta minuti di treno da Wynberg – ci siamo abbracciati con grande affetto, e lui mi ha detto: “A presto. Ricordati che Cape Town è sempre qua che ti aspetta.”
Chi viaggia, mi hanno detto una volta, incontra sempre tutti almeno due volte. Spero avesse ragione.
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sud Africa… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.