Dal microcosmo fiorentino al macrocosmo della Commedia. Massimo Mori, flâneur nella città di Dante a 750 anni dalla nascita del Poeta

Creato il 05 luglio 2015 da Retroguardia

Dal microcosmo fiorentino al macrocosmo della Commedia. Massimo Mori, flâneur nella città di Dante a 750 anni dalla nascita del Poeta.

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di Stefano Lanuzza

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Firenze capitale dell’Italia negli anni 1865-1871 – la ‘capitale involontaria’ per la quale si abbattono il centro antico e le mura del Trecento –, tra le città più visitate e ammirate d’Italia, è nota nel mondo anche per avere dato i natali nel 1265 a Dante Alighieri: colui che, presumibilmente nel 1307, inizia a scrivere quella Commedia dove si concentra la grande cultura del Medio Evo e si pongono le basi d’una lingua italiana stabile e dall’ortografia fino ad oggi immutata… Ci voleva il guelfo e poi ghibellino Dante perché la parola italiana cessasse di essere un dialetto del latino e diventasse lingua d’una nazione.
Nato tra Orsanmichele e Badia, forse un martedì del 2 giugno, nel segno dei Gemelli, in una città che all’epoca è dominata dalla borghesia ricca e dai Ghibellini tornati al governo di Firenze nel 1260 dopo la battaglia di Montaperti, il poeta, già condannato al rogo dai suoi concittadini, muore esule a Ravenna il 14 settembre 1321. I suoi concittadini l’hanno rinnegato e allora lui, nel Canto XV dell’Inferno, così li maledice: “Ma quello ingrato popolo maligno/ che discese da Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno/…”. Così l’invettiva di Dante contro i fiorentini discesi dai rozzi fiesolani, “gent’è avara, invidiosa e superba”.

Massimo Mori si stabilisce a Firenze nel 1972, dopo essere stato, nel 1966, nei giorni seguiti all’alluvione del 4 novembre, tra gli ‘angeli del fango’ impegnati ad aiutare la ripresa della città. E mentre Dante – che si dichiara “fiorentino di nascita, non di costumi” – vive a Firenze solo 35 anni, Mori ci sta da ben più tempo (miha poho).
Inoltre, è proprio in questa città, meta di intellettuali e artisti provenienti d’ogni dove, oltre che un riferimento delle arti d’avanguardia non solo italiane (Futurismo, Ermetismo, seguiti dalla Poesia visiva e tecnologica del Gruppo 70 dei Pignotti e Miccini), che Mori avvia il proprio impegno soprattutto di performer e poeta sperimentale e innovatore; fino a conseguire, nel 2014, il Premio Internazionale “Lerici Pea” per la poesia intermediale.

L’insieme di tali e altri riferimenti è come compendiato nel video (corredato del volumetto Frattali della poetica plurale di Massimo Mori) recante il titolo di Padrelingua. La Divina Commedia da mio padre studiata da me strappata e ricomposta (Firenze, Morgana Edizioni, 2015).
C’è stato un tempo in cui, a volte, da bambino, Massimo si è sentito in qualche modo trascurato dal padre insegnante forse troppo dedito ai propri interessi culturali e assiduo studioso del poema dantesco in un’edizione del 1938: che il genitore compulsa e annota con scrupolo costante e, sembrerebbe, quasi esclusivo. “Da bambino, mio padre mi leggeva la Commedia e io non ascoltavo” ricorda Mori…
Passano diversi decenni e, nel 2004, scomparso il padre, capita che un giorno egli recuperi quella copia consunta, già causa di frustrazione, e in un impeto di rabbia ne laceri le pagine, come tempo prima, fu lacerato il suo animo.
Il poeta Mori, senza volerne fare un caso d’accademia psicanalitica ma risolvendo ‘in poesia’ (en poète) il proprio antico sentimento d’esclusione, ora ricompone quelle pagine ricucendone in una ferma “filografia” le strofe interrotte ora metamorfosati in frammenti, reliquie o metareligiose particole per un pacificato incontro di riconciliazione o forma di laica comunione col padre. Ne consegue uno smontaggio per il quale si vengono a creare nuove relazioni testuali e inedite composizioni e ricostruzioni. In seguito, tali frammenti, disposti in una sorta di tracciato per un percorso neoconoscitivo, vanno a formare una sorta d’insolita toponomastica della città di Firenze.

Ora, nel video, ecco Mori ripreso nel suo itinerario fiorentino, con punto di partenza Piazza Santa Croce dominata dall’imponente statua di Dante che, da giovane, presso i francescani di Santa Croce, studia grammatica e filosofia.
È una statua che, inaugurata il 14 maggio 1865, rappresenta un Dante puramente immaginario: si sa infatti che, così come non esiste una copia autografa della Commedia, nessuna delle tramandate immagini del poeta corrisponderebbe al vero. “Pare comunque” scrive lo studioso Pino Miglino “che Dante fosse basso e di carnagione olivastra. Ebbe problemi agli occhi per il troppo studio. E c’è l’ipotesi che i mancamenti di cui si lamenta spesso nei versi siano ispirati da una sua patologia reale, l’epilessia” (“ST. Storia & storie di Toscana”, n.18-19, aprile/ maggio 2015).

Nei secoli, è alterna la fortuna della Commedia che se nel Trecento è considerata una sorta di summa scientifica e nel Quattrocento una ‘Bibbia’ dell’Umanesimo, viene rimossa dalla cultura rinascimentale (il petrarchista Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua, 1925, definisce Dante poeta “grave e senza piacevolezza”).
Contrapposto, nel Seicento, alla poesia del Tasso e del gran barocco Marino, Dante viene genericamente bollato come poeta barbaro e arcaico.
Così, bisogna aspettare il Settecento per riconoscere nell’autore della Commedia il vero ‘padre’ della lingua italiana.
Finché, nell’Ottocento, il Romanticismo consacra Dante quale genio del Medioevo e la Commedia un’opera tra le maggiori delle letterature del mondo. In questo secolo, tra le tante opere dedicate in Europa al poema dantesco, si ricordi il Discorso sul testo della Divina Commedia (1825) nel quale Ugo Foscolo, oltre a proporre un’interpretazione filologico-stilistica del testo, offre una convincente critica del sistema storico, religioso e filosofico dell’epoca di Dante, figura, secondo Foscolo, di moderno poeta-vate.
Quello del poeta-critico, ossia di un poeta fatto critico dal proprio stesso totalizzante impegno, è poi il Dante presentato nel 1870 da Francesco De Sanctis nella sua magistrale Storia della letteratura italiana.
Giungendo al Novecento, Benedetto Croce, in una sua discussa testimonianza (La poesia di Dante, 1921), distingue un Dante ‘impoetico’ (allegorico, teologico, moralista) e un Dante poeta puro. Il quale, definito da Edmond Jabès “un poeta di ieri e dell’avvenire”, è da Witold Gombrowicz così interrogato: “Spiegaci, o Pellegrino: come dobbiamo fare per giungere a te?” (Su Dante, 1969).
Infine, come non ricordare un raro scritto di Ezra Pound, Dante, stampato da Marsilio (2015; a cura di C. Bologna-L. Fabiani), e i Cantos che evocano spesso la Commedia? Ama Dante, Pound; però è infastidito da una Firenze che definisce “la più dannata città italiana dove non c’è posto per sedersi, stare in piedi o camminare”.

Col passo erratico del moderno flâneur metropolitano, diversamente dal Dante ramingo nell’Italia del Nord, adesso Mori percorre solitario e senza fretta le vie cittadine mettendo a fuoco la realtà dintorno. Giungendo da Santa Croce, percorre il Lungarno, costeggia Ponte Vecchio, incrocia la Biblioteca Nazionale Centrale e Piazza della Signoria, il Corridoio degli Uffizi e il Duomo, Palazzo Strozzi e Palazzo Medici Riccardi, Piazza della Repubblica con il Caffè delle Giubbe Rosse di cui è stato l’animatore culturale per oltre un ventennio (è lo storico, famoso Caffè luogo d’incontro di Papini e poi dei Vittorini, Gadda, Montale, Landolfi, Luzi, Bigongiari e tanti altri artisti e letterati tra i maggiori del Novecento)… Il suo è un percorso scandito da soste dove il recupero della Divina Commedia è rappresentato dalla lettura di quelle pagine da parte d’ideali compagni di strada e poeti, tutti lettori dei versi di Dante detto da Cino di Pistoia “Signor d’ogni rima”… Ne nasce, in un collettivo mantra, un coro scandente gli indimenticabili versi del poema dantesco: con le voci di Julien Blaine, Tomaso Binga, Martha Canfield, Bartolomé Ferrando, Milli Graffi, Giulia Niccolai, Endre Szkarosi, Giovanni Fontana, Lello Voce, Mariella Bettarini, Alessandra Borsetti, Luigi Fontanella, Enzo Minarelli, Marco Palladini; con Kiki Franceschi che legge Dante mentre sul muro alle spalle di un’immagine di Mori s’intravede una casuale scritta d’ignoto perfettamente in tema con l’eternale attualità dell’autore della Commedia: “Passa solo il tempo, il poeta resta”… S’odono, intanto, le note del Pulse prelude di Albert Mayr.

Provvisorio punto di pausa o ‘stazione di posta’ dell’errabondo flâneur Mori, versatile testimone d’una “poetica plurale”, è l’antico Circolo degli Artisti “Casa di Dante” nato nel 1843 e diretto, oggi, da Graziella Marchini, artista figurativa e giornalista… Qui, nella casa degli Alighieri situata tra la Torre della Castagna e la Parrocchia di San Martino del Vescovo, vediamo le pagine strappate transustanziarsi in icone, opere verbovisuali, “pagine da muro” dove la lingua-madre fondata da Dante si rispecchia nella “poesia strappata” e convertita da Mori in “Padrelingua”. Ed è così che il figlio dello studioso della Commedia si fa figlio del ‘padre’ della lingua italiana: del “Padrelingua”, appunto.

Partito dal monumento dedicato a Dante in Santa Croce, è infine ad esso che Mori, ‘poeta in azione’, torna concludendo la sua promenade perfettamente circolare. Come significando che circolare, ossia onnicomprensivo e onniavvolgente come nel cosmologico Dante, è il pensiero della poesia.

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