Dal Sessantotto al PD: come costruire una sinistra antisocialista

Creato il 27 ottobre 2012 da Coriintempesta

di: Andrea Fais

Ha creato scalpore l’ennesima uscita del sito ufficiale del Partito Democratico, che ha salutato il ritiro dalla politica di Silvio Berlusconi con uno strano banner, ossia con una notizia presentata attraverso un esplicito riferimento al film Good Bye Lenin, accostando Berlusconi e Tremonti ai “decaduti miti” del Socialismo Reale e alle effigi di Lenin e Stalin. Il parallelismo storico è ovviamente grottesco e, probabilmente, ovunque essi si trovino, Lenin e Stalin staranno già fissando sconcertati Bersani e Renzi. D’altronde, era evidente da molto tempo che il partito costruito da Achille Occhetto e portato a compimento da Walter Veltroni nel 2008 con la fusione tra DS e Margherita, non avesse più alcun tipo di riferimento verso un passato comunista più nominale e formale che altro. Tuttavia le uscite del partito di Bersani hanno l’indiscusso merito di sorprendere continuamente.

Poco tempo fa il sito del Partito Democratico riprendeva con soddisfazione sconcertante un articolo di Antonio Satta per “Milano Finanza”, il quale esordiva affermando che “per le prossime elezioni Goldman Sachs scommette sul Pd” e che “il colosso finanziario americano, a sette mesi dalle elezioni politiche italiane, ha pubblicato un report che farà rumore, nel quale si sostengono le chanche di una maggioranza di centro sinistra incentrata sul Pd”. Sui rapporti tra il centro-sinistra italiano e la Goldman-Sachs sapevamo già alcune cose, a partire dal fatto che Romano Prodi ne è stato dipendente poco prima di entrare in politica come candidato premier de L’Ulivo. Quel che sorprende e che lascia di sasso è il fatto che un partito che si definisce ancora socialdemocratico e che si considera parte integrante dell’internazionale socialista, possa andare persino orgoglioso della stima che gli viene accreditata presso gli ambienti dell’alta finanza statunitense.

È senz’altro vero che, nei giorni decisivi per il voto parlamentare sull’autorizzazione alla missione in Libia dell’anno scorso, il Partito Democratico non soltanto aveva sostenuto la necessità di intervenire “anche militarmente” posta in aula dall’allora ministro degli Esteri Franco Frattini, ma aveva addirittura criticato Silvio Berlusconi per le “inaccettabili esitazioni” mostrate dinnanzi alla crisi libica, rispetto alla quale, secondo Bersani (e Vendola), l’ex premier si sarebbe inizialmente impuntato per cercare di evitare un attacco contro Gheddafi. Un interventismo imperialista che seguiva un’obliquità politica già ribadita anche dalla stupefacente pubblicazione di una frase di Ronald Reagan sulla prima pagina de “L’Unità” alcuni mesi fa, presumibilmente per ornare con un po’ di “ruggente edonismo” le già notevoli perle radical-chic inserite nel giornale sotto la direzione di Concita De Gregorio.

Probabilmente, però, nessuna testata giornalistica potrà eguagliare il livello raggiunto negli ultimi anni dal Gruppo Editoriale L’Espresso di Carlo De Benedetti che si è spesso divertito ad accostare Silvio Berlusconi a Stalin, a Brezhnev o a Kim Jong Il: emblematica la pagliacciata orchestrata dalla rivista di geopolitica Limes che, rompendo per un momento il clima di celebrata autorevolezza “scientifica” di cui si picca, ha voluto divertirsi pubblicando una finta lettera di Kim Jong Il a Berlusconi, nella quale il compianto leader coreano si congratulava con l’ex primo ministro italiano per aver installato una “dittatura perfetta”.

Eppure, c’è ancora chi considera questo teatrino politico cominciato con l’inchiesta Mani Pulite come una vera arena di confronto tra posizioni socialiste/riformiste e liberali/conservatrici. È evidente che la costruzione del (falso) mito eurocomunista ha sempre mirato allo scopo (primariamente geopolitico, ma anche ideologico) di separare in modo definitivo le vocazioni e le caratteristiche del Socialismo Reale dagli ambienti della sinistra occidentale, già pesantemente ammaliati negli anni Settanta e Ottanta dalla scuola “maoista” ebraico-francese di Andrè Glucksmann e Charles Bettelheim. Se il secondo è ormai noto per la pubblicazione del celebre testo Le lotte di classe in URSS (1974-1982), dove tenterà di smontare uno ad uno i significati storico-economici della Rivoluzione d’Ottobre e delle conquiste raggiunte durante la fase staliniana, il primo finirà dalle piazze della contestazione parigina alla stesura del famigerato Libro Nero del Comunismo, un mix di complottismo e propaganda maccartista aggiornati ai tempi nostri. Colpire la storia del comunismo novecentesco equivale a colpire una parte importante del patrimonio culturale-economico-militare (passato o presente) di gran parte dell’Oriente, con evidenti ripercussioni nel confronto geopolitico odierno.

A dimostrazione che la “teoria per la teoria” conduce necessariamente al pericoloso salto della quaglia, destando più di un sospetto, i tanti intellettuali attivi in Occidente nel segno di un non meglio precisato marxismo sono per lo più noti per aver di volta in volta cercato di smontare l’azione politica e geopolitica concreta dei Paesi socialisti, individuano sempre un pretestuoso appiglio al fine di boicottarne le soluzioni strategiche. Insopportabili saccenti, questi critici della poltrona hanno lavorato alacremente per indottrinare intere generazioni ed educarle ai più grotteschi ondeggiamenti politici, ai ribaltamenti di prospettiva e, in definitiva, al relativismo politico per le masse, tipico dell’egemonia liberale odierna.

Non è difficile immaginare come l’operazione di addomesticamento dei partiti comunisti in Occidente possa aver seguito, per tanto, alcune precise tappe storiche scandite dai tentativi statunitensi di indebolire una critica sociale concreta e realista in Europa e di isolare l’Occidente – ossia il blocco atlantico – dal resto del mondo, secondo i criteri di un costante clima da Guerra Fredda che soltanto gli Stati Uniti, da potenza “insulare” e marittima, hanno interesse a mantenere presentando di volta in volta un nuovo fantomatico “impero del male” da dover colpire o sanzionare.

Secondo la sottile strategia egemonica del Pentagono, infatti, qualunque potenziale competitore va smontato e boicottato, in base a un processo comunicativo innescato non soltanto dalla propria prospettiva diretta ma anche da quelle indirette e altrui. Il maccartismo degli anni Cinquanta non è più sufficiente e la sua grottesca faziosità rischiò all’epoca di isolare gli Stati Uniti rispetto ad un mondo in rapida evoluzione nei suoi assetti internazionali postcoloniali. Nell’immaginario collettivo, ormai, l’imposizione costante di coppie di opposti semantici quali “dittatura-democrazia”, “regime-libertà” o “violenza-umanità” rimanda continuamente alla contrapposizione tra un supposto primato morale-politico dell’Occidente (a guida statunitense) e un presunto plesso russo-sino-islamico che, malgrado la crescita economica, continuerebbe a macchiarsi di brutalità e corruzione. In questa operazione mediatica di spartizione del pianeta in due blocchi, la sinistra occidentale riveste un ruolo fondamentale proprio perché recupera la vecchia tradizione “umanista” e “filantropica” che ne contraddistinse gli albori durante la Rivoluzione Francese adattandola ai criteri della strategia di espansione statunitense nel pianeta. Non è casuale che i nomi di Franca Rame, Dario Fo, Walter Veltroni, Marina Sereni ed altri esponenti politici della sinistra compaiano tra quelli dei primi firmatari italiani della petizione per la scarcerazione di Liu Xiaobo, il dissidente cinese premiato col nobel per la pace nel 2010, che si era evidentemente “meritato” per aver assunto la guida del movimento Carta08, pensato da George Soros sulla scia del vecchio movimento cecoslovacco Carta77, e per aver sostenuto alcuni anni fa che la Cina “avrebbe bisogno di altri trecento anni di colonialismo”.

Gli obiettivi stabiliti dalla strategia nord-americana di contenimento, strangolamento e schiacciamento dell’Unione Sovietica ieri e della Repubblica Popolare Cinese oggi, dovevano e devono passare per un’azione ben più radicale ed estesa: guadagnare punti nel soft-power attraverso nuovi miti sociali (pop-star, scrittori,attori, inventori ecc. …), creare modelli teorici di “sinistra” alternativi al Socialismo Reale e quasi sempre destinati alla sconfitta politica o ad una scarsa presa sulla popolazione, introdurre un’ ideologia ambientalista e pacifista da imporre attraverso ONG e associazioni di vario genere nei Paesi in via di sviluppo per bloccarne i piani industriali e militari, massimizzare un sistema di informazione che, come denunciava già Pietro Secchia nel dopoguerra, lanci le stesse parole d’ordine nello stesso preciso momento in tutti i Paesi satelliti, un sistema propagandistico puntuale ed efficace che continua tutt’oggi a funzionare in modo certosino, come dimostrato dagli ennesimi topoi sinofobici e russofobici, raggiunti la scorsa estate durante le Olimpiadi di Londra e nei giorni del processo alle Pussy Riot.

Non devono sorprendere dunque né la funzione politica né la missione internazionale del Partito Democratico (e dei movimenti ad esso analoghi) che, tra il rifinanziamento di una missione all’estero ed una proposta di privatizzazione di ENI, ENEL o Finmeccanica, ogni tanto trova anche il tempo per divertirsi nel suo sito ufficiale.

Fonte:  StatoPotenza.eu


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :