di Pierluigi Montalbano
Mentre l’Italia continentale protostorica ha già da tempo acquisito un inquadramento cronologico alquanto definito, lo stesso non può ancora dirsi per la Sardegna. Ciò deriva da alcune peculiarità della cultura nuragica caratterizzata, come sottolineato da Lilliu, da un forte senso di continuità. Inoltre le specificità tipologiche dei reperti ceramici e metallici sardi spesso non consentono immediati agganci con altre facies culturali meglio conosciute. Tuttavia negli ultimi quindici anni alcuni studiosi (Ugas, 2006, L’Alba dei Nuraghe) hanno colmato la lacunosità nell’edizione dei materiali e hanno elaborato una sequenza cronologica complessiva delle varie classi di materiali.
I ritrovamenti significativi sono avvenuti nei ripostigli, rinvenuti in notevole numero nell’isola. Possono essere formati da manufatti di diversi periodi ed è sempre difficile la classificazione. Di essi ancora oggi la grande maggioranza resta inedita o pubblicata in maniera approssimativa; spesso si dispone unicamente di vecchie ed imprecise illustrazioni, talora risalenti alla metà dell’Ottocento, come per taluni studi dello Spano. In tal modo risulta assai difficile condurre uno studio moderno e puntuale sui materiali archeologici.
La carenza risulta tanto più grave considerando l’enorme importanza rivestita dal metallo e dalla metallurgia nello sviluppo di tutta la preistoria della Sardegna. L’isola è infatti ricca di giacimenti metalliferi, che sono stati oggetto di intenso sfruttamento dalla preistoria sino a pochi anni fa. Vi si trova il rame, il ferro, il piombo, l’argento e persino ridotte quantità di stagno, tutte materie prime attivamente ricercate in antico ed intorno alle quali ruotavano cospicui interessi economici e commerciali. I giacimenti metalliferi sono diffusi in gran parte del territorio; il mineralogista Billows nel 1935 giunse ad enumerarne oltre quattrocento. Vi sono tuttavia delle aree dove le mineralizzazioni sono più diffuse ed abbondanti e dove si è quindi maggiormente concentrata nei secoli l’attività mineraria, come il Gerrei, l’Iglesiente, l’Arburese, il Sarrabus, il Sarcidano e la Nurra.
Il fabbisogno di stagno e la diffusione del bronzo provocarono notevoli cambiamenti sociali ed economici, quali il sorgere di nuove professioni (cercatori e minatori) e lo sviluppo del commercio di lingotti di metallo su lunghe distanze, il cui controllo conferì potere politico ed economico, nonché prestigio sociale, a determinati gruppi. Lungo le rotte commerciali sorsero centri di produzione e insediamenti fortificati e alcune aree si arricchirono grazie all'intermediazione, come dimostra il caso della cultura del Wessex (Inghilterra meridionale), dominata da capi-guerrieri i cui tumuli sepolcrali hanno rivelato tombe piene di oro, bronzo e ambra.
Come è noto la necessità di approvvigionarsi di tali ricchezze fu la principale molla che spinse i naviganti egei a stabilire contatti continuativi con le comunità indigene della penisola e d’altre regioni occidentali italiane sin dagli inizi del Bronzo Medio, nella prima metà del II millennio a.C. Già in quel periodo la Sardegna vantava una lunga tradizione metallurgica: le sue prime attestazioni di lavorazione dei metalli risalgono infatti alla fine del Neolitico, facendo anzi supporre che l’isola sia pervenuta in modo autonomo alla scoperta delle tecniche di estrazione dei metalli. Non va dimenticato che per il mondo antico i metalli avevano una valenza strategica, paragonabile a quella che attualmente riveste il petrolio nell’economia moderna. I popoli che possedevano tali ricchezze, ed erano capaci di sfruttarle, potevano giocare un ruolo privilegiato nel contesto geopolitico dell’epoca. I tesori del sottosuolo stimolavano appetiti e cupidigie, con i conseguenti tentativi di appropriarsene con guerre ed invasioni. I numerosissimi nuraghe, eretti a controllo del territorio, dimostrano ancora oggi come gli antichi Sardi fossero consapevoli della necessità di difendersi da tali pericoli. Il Mediterraneo del Bronzo era un mondo in cui gli scambi fra culture diverse, anche geograficamente distanti, non si limitavano a quelli unicamente commerciali, ma investivano anche la sfera sociale e culturale. Le scoperte archeologiche ci mostrano un reticolo di contatti multidirezionali, provenienti dai quattro punti cardinali, e dimostrano come il Mediterraneo fosse una vera autostrada in cui viaggiavano uomini, merci ed idee.
Anatolia, Egitto, Vicino Oriente, Grecia, Italia, Europa centrale ed occidentale entrarono da protagoniste in questo gioco dinamico. Le grandi isole, Cipro, Creta, Sicilia e Sardegna vi svolsero un ruolo chiave, e istruttivo in questo senso è il relitto risalente al Bronzo rinvenuto anni fa lungo la costa turca presso Ulu Burun. In esso si rinvennero, a costituire il carico della nave, gioielli e scarabei egiziani, avori siriani, anfore cananee, sigilli mesopotamici, ceramiche micenee, armi provenienti dall’area italiana e lingotti di rame ciprioti dalla caratteristica foggia "a pelle di bue". Lingotti simili sono stati scoperti in gran numero, sia interi che frammentati, in vari siti della Sardegna. Nel corso dei secoli la civiltà nuragica è cresciuta autonomamente come una solida pianta ben radicata, ma è stata anche il frutto di continui processi evolutivi che in parte sono derivati da elaborazioni interne, in parte sono il riflesso di acquisizioni scaturite dai rapporti con genti d'oltremare. Le fonti letterarie antiche suggeriscono varie aree come luoghi da cui sono partiti gli stimoli per l'origine e lo sviluppo della civiltà nuragica e sono: la regione iberica, quella egea e infine quella cretese e quella micenea. A giudicare dai dati finora noti, l'architettura sarda dei protonuraghe non trova riscontro nelle regioni tirreniche.
Qui non si conoscono né residenze fortificate, né sepolcri megalitici che possano in qualche modo richiamare la realtà sarda. Tuttavia i contatti attraverso il ponte della Corsica non dovettero mancare del tutto nel Bronzo, come suggeriscono le relazioni nell'ambito della ceramica e della metallurgia. Ben diversa è la situazione dei rapporti con la Corsica e le Baleari, come si evince dalle testimonianze dell'architettura.
Agli albori della civiltà nuragica, Corsica meridionale e Minorca, appaiono legate alla Sardegna da un rapporto speciale e propongono identiche costruzioni megalitiche: nuraghe in Sardegna, torri in Corsica, talajots in Minorca. Più tardi, nel corso del XIII a.C., in Corsica abbiamo edifici con torri circolari a più piani, che mostrano una slanciata volta nella camera. L'aggetto e la tecnica costruttiva regolare dei filari, indicano che la volta della camera di queste costruzioni era di sezione ogivale. Gli strettissimi rapporti con Minorca sono confermati dalla diffusione delle navetas, grandi tombe absidate megalitiche d'uso collettivo, costruite a filari sopra il suolo, che richiamano le tombe di giganti nuragiche. Nel campo dell'architettura sepolcrale della Corsica va osservato che ad un momento coevo a quello in cui si sviluppò in Sardegna la facies di Sant'Iroxi vanno riferite alcune allèes. Abbiamo un'usanza, già documentata in Gallura: inumare i defunti all'interno di piccoli anfratti di roccia granitica, appena adattati artificialmente. Queste grotticelle prendono il nome di tafoni. Questo costume, proprio di comunità pastorali corse, si diffuse in Corsica e in Gallura già nel Neolitico, ancora prima dell'introduzione delle grandi sepolture a circolo e dei sepolcri dolmenici.
Spostandoci nelle regioni del Mediterraneo orientale, finora non sono state osservate forti somiglianze fra le costruzioni fortificate nuragiche e quelle cretesi e micenee nel periodo compreso tra il XVI e il XIV a.C. Creta non sembra conoscere neppure vere e proprie mura di difesa degli abitati, benché il palazzo regio sia costruito in modo tale da controllare almeno gli accessi.
Diversamente, a partire dalla fine del XIV a.C., alcuni particolari costruttivi micenei presuppongono esperienze architettoniche note ai maestri sardi: corridoi coperti costruiti su due piani nelle cortine del bastione trilobato di Santu Antine in Torralba, e i corridoi di taglio ogivale dell'Unterburg di Tirinto. Altre affinità stilistiche le abbiamo nel taglio ogivale delle porte delle fortezze micenee che propongono anche il disegno del trilite realizzato con due lastroni laterali sormontati da una architrave, esattamente come in diverse tombe di giganti. Nelle fortezze ittite dello stesso periodo i tagli ogivali fanno la loro comparsa anche nelle porte, non diversamente da Micene e da alcune città del Vicino Oriente.
Dai confronti ora accennati emerge che i rapporti tra l'architettura nuragica, quella egea e quella ittita erano molto stretti nel XIII-XII a.C., benché nelle fortificazioni dell'est del Mediterraneo permanesse immutata la tradizione delle torri quadrangolari. Viene da domandarsi se nell'arte del costruire le cinte murarie i sardi subirono le più avanzate conoscenze degli architetti stranieri o viceversa. L'adozione della volta ogivale per la copertura delle camere e dei corridoi appare sempre più il prodotto di una trasformazione progressiva, in seno all’architettura palaziale protosarda, avvenuta nell'ambito di continui scambi di esperienze costruttive tra la Sardegna e il mondo Egeo. In queste relazioni la Sardegna, avendo la capacità di elaborare al suo interno, è capace a sua volta di offrire e trasferire altrove idee e uomini. La volta a ogiva, impiegata per verticalizzare le strutture qualche millennio prima dello stile gotico, è sistematicamente utilizzata negli edifici monumentali sardi, siano essi fortezze, corridoi di tombe e templi. È il risultato dell'adozione di soluzioni tecniche che comportavano il superamento di notevoli difficoltà di natura statica, come quella determinata dalla sovrapposizione di tre camere cupolate.
Al pari dell'architettura, ma non con le stesse modalità, gli elementi della cultura materiale mobile evidenziano i commerci tra la Sardegna e le altre regioni mediterranee.
Nel processo di sviluppo delle comunità protosarde, le miniere hanno indubbiamente esercitato un ruolo determinante. Particolarmente nell'Iglesiente, sono presenti strutture geologiche classificate tra le più antiche d'Europa, sicuramente le più antiche dell'area mediterranea; per cui la Sardegna è considerata una delle regioni più interessanti d'Europa per ricchezza e varietà di minerali. Già dal Neolitico, le risorse minerarie della Sardegna erano oggetto di particolare interesse da parte di diversi popoli già socialmente ed economicamente evoluti che, dalle regioni orientali, avviavano le prime grandi migrazioni e colonizzazioni nel vasto bacino mediterraneo, raggiungendo le estreme regioni occidentali e toccando anche la Sardegna. La prima grande risorsa geomineraria ad essere sfruttata in Sardegna fu certamente l’ossidiana, un composto di lava vitrea finissima di colore nero intenso e notevole durezza, presente nei vasti giacimenti del Monte Arci, presso Oristano. L'uomo del Neolitico fece uso dell'ossidiana per realizzare armi, utensili e oggetti d'uso comune, indispensabili per le esigenze della propria vita.
Con pietre più dure battevano l’ossidiana sino a ricavarne delle schegge affilate che venivano forgiate come coltelli e punte di freccia. Dunque i sardi erano abili a lavorare e commerciare questo prezioso oro nero e, quindi, in grado di navigare nel Mediterraneo, portando lontano dalla Sardegna la cultura di un popolo che nella preistoria non era soggiogato e isolato.
L’ossidiana di Monte Arci è stata trovata in Piemonte, Toscana, Baleari e Francia. Transitava dalla Corsica e dall’Isola d’Elba sfruttando le correnti favorevoli e dandoci la conferma di flussi commerciali costanti. Analisi chimiche approfondite hanno dimostrato che si tratta proprio di ossidiana sarda e questo dettaglio contribuisce ad illuminare il quadro dei commerci sardi nel mare già dalla fine del Mesolitico. Infatti, nell'intero bacino mediterraneo erano stati individuati appena cinque giacimenti di una certa rilevanza di questo prezioso materiale, tutti in isole: Melos (Egeo), Pantelleria, Lipari (Eolie), Palmarola (Ponziane) e Sardegna. Per millenni questa rara e preziosa materia prima percorse le più disparate rotte del Mediterraneo, raggiungendo i mercati più lontani dell'Africa settentrionale, dei Balcani, della penisola Italica, dell'Iberia e della Provenza. Solo la successiva scoperta dei primi metalli, rame e stagno, indusse l'uomo ad accantonare progressivamente l'uso delle pietre dure ma ancora oggi l’ossidiana è utilizzata per la produzione di gioielli e in alcune attività chirurgiche dove è richiesta la massima precisione di taglio.
...domani la 2° parte
Tratto da "L'Antica Civiltà Mediterranea", Montalbano, 2010