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Dalla deregulation alla crisi: la “finanziarizzazione” dell’economia – Parte 1

Creato il 20 settembre 2010 da Ronin

Dalla deregulation alla crisi: la “finanziarizzazione” dell’economia – Parte 1

1. Introduzione: il fenomeno della deregulation

A partire dai primi anni ’80, e per quasi trent’anni i sistemi finanziari dei paesi occidentali hanno subìto un costante processo di innovazione. Il modello bancario tradizionale, le cui attività principali sono costituite sostanzialmente dai depositi dei clienti e dalla concessione di crediti, è ormai messo in ombra dai molteplici mutamenti della finanza moderna.

La panoramica è decisamente variegata: mezzi informatici estremamente potenti e veloci, mobilità internazionale dei capitali, strumenti finanziari diversificati e sempre più personalizzati, esposizione crescente al rischio, trading orientato a guadagni di brevissimo termine, uso intenso della leva finanziaria e, infine, una regolamentazione sempre meno incisiva sulle attività finanziarie. Quest’ultimo punto è forse il più adatto per partire nella nostra analisi, in quanto ha creato un substrato adeguato allo sviluppo di tutto quello accennato poco sopra.

Il termine “deregulation” indica sostanzialmente un processo di snellimento e diminuzione delle regole e delle leggi, nel caso in questione riferite al sistema finanziario. L’idea alla base è in linea con i principi fondamentali della teoria economica neoclassica, e per questo motivo è sempre stata vista di buon occhio sia dalla maggior parte degli ambienti accademici che dagli stessi policymakers. Le giustificazioni principali possono essere riassunte nei seguenti punti:

  • Innanzitutto, i mercati funzionano al meglio quando sono liberi di far fluire i capitali dai settori in declino verso nuovi impieghi più redditizi, aumentando la produttività dell’economia e l’efficienza complessiva del sistema. E questo avviene molto più facilmente quando gli operatori possono muovere i capitali senza eccessive limitazioni, creando un mercato con molte transazioni (in gergo, rendendolo più “liquido”). Questo discorso vale anche riguardo alla globalizzazione della finanza, i cui mercati sempre più interdipendenti hanno bisogno che la liquidità possa muoversi liberamente da uno Stato all’altro.
  • I nuovi strumenti finanziari, sempre più sofisticati, offrono nuove possibilità agli investitori. Attraverso strumenti creati su misura per le esigenze e la propensione al rischio di ogni operatore, il mercato ha cominciato ad aprirsi anche ai non professionisti del settore. La migliore gestione del rischio, l’uso del leverage, insieme ai software sempre più intuitivi e a portata di tutti, hanno reso il trading più appetibile per i piccoli investitori e hanno stimolato i professionisti ad avere comportamenti sempre più “spudorati”. Inoltre questa distribuzione più efficiente del rischio diminuisce il costo del capitale, permettendo a più persone di accedere al credito, con i conseguenti effetti, positivi e negativi, nei confronti dei mutui e del credito al consumo.
  • Infine, l’informatizzazione degli ultimi decenni ha permesso di abbattere i costi di transazione delle operazioni, dando inizio ad una nuova forma di trading “istantaneo”, che avviene interamente online e che permette di effettuare decine di operazioni in brevissimo tempo, avendo per di più a disposizione informazioni dettagliate su praticamente ogni aspetto rilevante dell’investimento.

In realtà le cose non sono così semplici, e i problemi legati ad una minore regolamentazione sono tanto numerosi quanto i suoi vantaggi, come la recente crisi ci ha purtroppo mostrato:

  • I sistemi finanziari, è ormai assodato, sono intrinsecamente instabili e hanno da sempre un comportamento ciclico in cui si alternano crescita e recessione. In queste condizioni la mancanza di regole non fa che accentuare le caratteristiche di entrambi i periodi, con anni di crescita in cui nascono e si sviluppano rapidissime le famose “bolle”, cullate da una fiducia cieca nelle possibilità future, e anni di profonda recessione, depressione e incertezza.
  • La facilità di accesso al credito, nonostante possa apparire positiva per la qualità della vita delle famiglie, non lo è nel momento in cui va oltre i propri limiti intrinsechi, alimentando bolle speculative di ogni tipo e gonfiando i prezzi oltre i livelli di guardia. Inoltre si creano ovvi problemi quando i prestiti vengono concessi a persone che non hanno ragionevoli possibilità di rimborsarli.
  • La distribuzione del rischio, mentre permette ad alcuni agenti di diminuirlo, lo fa aumentare eccessivamente per altri, creando posizioni estremamente precarie per un gran numero di importanti banche d’affari (le famose “too big to fail”), i cui eventuali problemi vanno a destabilizzare l’intero sistema. Gli stessi effetti catastrofici possono essere causati anche dall’uso spregiudicato della lava finanziaria, che aumenta l’esposizione delle banche fino ad andare fuori controllo.

2. Gli eventi storici: la deregulation negli USA

La finanza ha senza dubbio un ruolo fondamentale nello sviluppo economico di ogni paese. Le sue funzioni principali, quella monetaria (cioè la creazione e la messa in circolo dei mezzi di pagamento) e quella creditizia (il trasferimento di risorse finanziarie fra gli operatori in surplus di capitale e quelli in deficit), a cui si aggiunge la funzione di assicurazione, sono necessarie e insostituibili per qualsiasi Paese moderno. Infatti l’intermediazione finanziaria ha più di una ragion d’essere: prima di tutto è in grado di far incontrare la domanda e l’offerta di capitali, creando le condizioni e la struttura in cui la transazione possa avvenire. Secondo, permette di superare, almeno in parte, l’asimmetria informativa esistente fra chi chiede in prestito del denaro e chi lo deve concedere. Terzo, interviene positivamente sulle transazioni, permettendo che gli scambi avvengano con maggiore efficacia (cioè maggior volume di scambi) e maggiore efficienza (cioè minori costi di transazione). Infine, è in grado di ridurre l’incertezza e il rischio legati agli investimenti e agli scambi. Un grande economista come Schumpeter assegna addirittura al credito il ruolo di motore esclusivo e “forza creativa” dello sviluppo, in quanto capace di creare “potenza d’acquisto” e innovazione, rendendo possibile la nascita e lo sviluppo industriale, l’aumento del tenore di vita e una conseguente formazione del risparmio e di nuovi investimenti, in un circolo virtuoso potenzialmente senza limite.

Questa introduzione può sembrare superflua, ma in un periodo in cui il mondo finanziario viene demonizzato da ogni parte è utile ricordare la ragion d’essere e il valore delle sue funzioni, tutt’altro che malvagie o dannose, di per sè: la finanza non è un fine ma uno strumento, e come tale può essere creativo o distruttivo, a seconda delle intenzioni di chi lo utilizza.

2a. Le regole del gioco fino agli anni ’70

Ed è proprio questo principio che giustifica l’esistenza di un altra fondamentale struttura, che è quella della regolamentazione. Da quando il sistema finanziario USA secoli addietro cominciò a svilupparsi e ad influenzare profondamente l’economia e la vita di un Paese, i governanti iniziarono a mettere in piedi una struttura legislativa che potesse controllarne in qualche modo gli effetti.

In realtà la regolamentazione del tempo era abbastanza “schizofrenica” e le leggi venivano emanate più per risolvere i problemi contingenti che via via si presentavano, più che con il fine di creare un sistema organizzato di regole (emblematico è il caso della legge sui tetti all’usura, passati dall’8% al 42% in pochi anni).

Nel 1914 si rese necessaria la nascita di una banca centrale, la Federal Reserve, con l’obiettivo di controllare meglio l’offerta di moneta e prevenire il “panico bancario”, fenomeno quantomai usuale nei decenni precedenti, quando mancava del tutto un’istituzione super partes che tenesse le redini del gioco. Dopo la nascita della “Fed”, tutte le banche dovettero registrarsi e depositare riserve di garanzia (che fino al 2009 non producevano interesse). Come corrispettivo, le banche avevano accesso ai prestiti a tasso ridotto della banca centrale, e potevano contare su di essa come “prestatore di ultima istanza”.

L’esperienza della Grande Depressione accelerò decisamente il cammino della regolamentazione. Nel 1933 il Congresso approvò due leggi fondamentali: la “Regulation Q”, che poneva dei limiti sugli interessi che le banche potevano offrire sui depositi, rimuovendo così la possibilità di “guerre di tassi” fra le istituzioni a caccia di clienti, e il “Glass-Steagall Act”, che obbligava le banche a decidere se occuparsi principalmente in attività bancarie o extra-bancarie, sancendo così di fatto la divisione fra banche commerciali (occupate esclusivamente in attività di prestito e deposito) e le banche d’investimento (che potevano esercitare attività speculative e di trading, ovviamente uscendo dal sistema “protettivo” della Fed). Nello stesso anno, visto che già nascevano i primi strumenti derivati, vennero istituite la “Securities and Exchange Commission” e la “Commodity Futures Trading Commission”, per regolare e supervisionare rispettivamente i mercati delle securities e dei futures. Vennero anche sviluppati sistemi di regolamentazione per le istituzioni di deposito (come le casse di risparmio) e per le compagnie assicurative.

Praticamente, il sistema di regolamentazione della prima metà del XX secolo era organizzato per branche d’attività: agenzie diverse si occupavano di regolare attività finanziarie diverse, spesso con priorità e finalità altrettanto lontane. Questo sistema frammentario lasciava spesso dei vuoti legislativi fra Stato e Stato, permettendo di fatto alle istituzioni “borderline” di auto-regolamentarsi.

In ogni caso, ngli anni ’70 la legislazione era ormai sostanzialmente completa e incisiva. È d’altronde facile intuire che, in anni di forte crescita e di fermento industriale (come quelli delle Grandi Guerre, e ancor più dopo di esse), il sistema finanziario non ha bisogno di inventare strategie sempre più elaborate e rischiose per produrre profitto, in quanto le attività bancarie tradizionali sono perfettamente in grado di trovare un allocazione redditizia per tutti i capitali. Come dire: quando le cose vanno bene, i soldi si fanno anche nel rispetto delle regole e seguendo i metodi “tradizionali” (concessioni di prestiti, investimenti a lungo termine, interessi sui depositi, ecc.). Il problema nasce quando le condizioni non sono più così favorevoli e bisogna ingegnarsi per trovare nuove fonti di guadagno.

2b. I passi della deregolamentazione

Infatti la situazione cominciò a cambiare radicalmente alla fine degli anni ’70, sia a causa di importanti mutamenti nelle ideologie e nel potere politico, sia per il raggiungimento della c.d. “frontiera delle possibilità produttive”. Con questo termine si indica la situzione di un paese avanzato, che dopo decenni/secoli di crescita sostenuta arriva inevitabilmente ad un momento in cui l’innovazione tecnologica assume un ritmo più lento e il capitale fisico fatica a trovare allocazioni più efficienti. Questo non vuol dire che il paese abbia terminato la propria corsa, ma che ha bisogno di escogitare nuovi metodi e nuove strade per continuare a crescere, ed è la situazione di molti paesi occidentali degli anni ’70, che dopo uno sviluppo fortissimo cominciato nell’800 e arrivato fino al dopoguerra, iniziano a crescere ad un ritmo più lento e stentato.

Con i terribili giorni della Depressione ormai lontani e con un sistema economico sempre più sofisticato, la visione del mondo occidentale cambiò radicalmente: la teoria economica neoclassica divenne dominante nel panorama intellettuale, con l’appeal del liberismo di Milton Friedman che sminuì non poco l’importanza delle politiche keynesiane. L’oggettivismo di Ayn Rand divenne una sorta di filosofia ed etica principe del mondo anglosassone, mentre il grigiore del socialismo di certo non scalfiva la ferma convinzione che il capitalismo fosse la strada migliore per il progresso. Il regno “Reagan-Tatcher” trovava insomma la strada spianata per togliere il guinzaglio alla finanza.

Uno degli eventi che diede grande spinta ai cambiamenti nella regolamentazione fu l’incredibile crescita dell’inflazione negli anni ’70. A causa di essa, i tetti agli interessi imposti dalle Usury Laws erano particolarmente limitanti, specialmente per l’emergente mercato delle carte di credito. Così, nel 1978 la Corte Suprema, con la famosa sentenza “Marquette National Bank vs First of Omaha Service Corp”, si trovo a decidere riguardo alla legge da applicare agli Stati che concedevano prestiti oltre i loro confini: la legge vigente nello Stato della banca o quella dello Stato del creditore? La Corte decise per la prima ipotesi, permettendo di fatto alle banche di esportare la regolamentazione vigente nel loro Stato a tutte le operazioni del restante territorio federale. E questa sentenza incentivò non poco la rilocalizzazione delle banche negli Stati con la regolamentazione più leggera. A causa di ciò, non stupisce scoprire che partì una sorta di “gara di deregulation”, con il fine di attrarre le grandi banche d’investimento, che potevano creare posti di lavoro e ridare spinta all’economia affaticata. E questo effettivamente accadde nel South Dakota, il cui governatore fu facilmente ammaliato dalle promesse dei manager di Citibank. Dopo il South Dakota diversi altri stati eliminarono i tetti all’usura, creando una situazione in cui, nonostante la maggior parte degli stati mantenessero la legislazione passata, le banche potevano offrire qualunque interesse volessero su tutto il territorio nazionale, in quanto si registravano negli Stati deregolamentati.

Dopo le leggi sull’usura venne il turno dei depositi. I tassi d’interesse sui depositi di risparmio erano definititi dalla Regulation Q, che li limitava al 5,25%, mentre sui depositi a vista era proibito qualunque interesse, per evitare di cadere nella trappola della “guerra dei tassi”. Il problema sorse nel momento in cui l’inflazione crebbe fino a diventare più alta degli interessi sui depositi. I risparmiatori iniziarono a ritirare i propri soldi per trovare utilizzi più remunerativi. Con il “Depository Institutions Deregulation and Monetary Control Act” del 1980 venno istituito un comitato che supervisionasse la completa rimozione dei tetti sugli interessi entro sei anni. Venne inoltre alzata la garanzia federale sui depositi, che passò da 40mila a 100mila dollari, e alle banche venne richiesto di tenere ulteriori riserve alla Fed, nonché di inviare report periodici sullo stato delle attività bancarie.

Nel 1982, con il “Garn-St. Germain Act”, venne data la possibilità alle casse di risparmio (le famose “savings and loan” o “thrifts”, che negli USA sono particolarmente specializzate nel promuovere l’acquisto di immobili) di investire il 10% degli assets in attività speculative.

Il Garn-St. Germain Act aveva lo scopo di aiutare l’industria dei prestiti, ma così facendo permise a queste istituzioni di entrare in nuovi e rischiosi terrritori. Il problema “storico” delle casse di risparmio è infatti legato al fatto di tenere depositi a breve termine (a causa dei correntisti che possono ritirare il denaro quando vogliono) e concedere prestiti a lungo termine (perchè i mutui vengono restituiti in un lasso di tempo esteso). Questo tipo di struttura rende le casse di risparmio particolarmente vulnerabili all’aumento degli interessi. Con l’inflazione galoppante e la competizione sempre più pressante sugli interessi, molte di queste istituzioni subirono forti perdite nei primi anni ’80. Ma il Fondo Federale di Garanzia sui Depositi non aveva abbastanza fondi per far fronte ad una tale insolvenza, senza contare che la supervisione continuava a diventare più lassista, seguendo lo spirito della “Reagonomics”, per il quale le istituzioni dovevano intromettersi il meno possibile nelle dinamiche di mercato.

A causa di questa miopia, le competizione sui depositi andò fuori controllo: le savings and loan cominciarono ad offrire interessi altissimi per attirare capitale, catturando l’attenzione degli speculatori e passando dal tradizionale mercato dei prestiti immobiliari al mare magnum dei prestiti ad alto rischio. A peggiorare le cose nel 1986 arrivò anche il “Tax Reform Act”, che eliminò molte delle protezioni fiscali che avevano reso il business del settore immobiliare così attraente e fece defluire rapidamente i capitali da esso.

Nel 1989, finalmente, il neoeletto Bush sr. approvò un piano di salvataggio chiamato “Financial Institutions Recovery and Enforcement Act”. Venne istituito l’“Office of Thrift Supervision” per regolamentare le casse di risparmio e fu creata una sorta di corporation federale che si occupasse di liquidare o sistemare le istituzioni in difficoltà. Il governo si occupò di gestire il fallimento di più di mille saving and loans, con un costo della crisi per i contribuenti stimato intorno ai 200 miliardi di dollari.

In definitiva, la crisi delle casse di risparmio rappresentò un incredibile esempio di fallimento di politica economica. La deregulation finanziaria permise alleS&L di usicre dalle rete di protezione federale, entrando in un mercato in cui non avevano esperienza e in cui misero a rischio i soldi di milioni di risparmiatori.

Nel frattempo, già da anni le banche avevano cominciato a fare lobbyng sul Congresso perchè restringessero i criteri del Glass-Steagall Act: si riteneva che con una finanza così evoluta e la nascita di strumenti innovativi i limiti imposti fossero ormai obsoleti. Così nel 1986 la Fed (andando contro, va detto, al parere del proprio governatore Paul Volcker) reinterpretò le restrizioni del Glass-Steagal Act, decidendo che una banca avrebbe potuto investire fino al 5% delle attività in investimenti rischiosi. Negli anni successivi, con l’arrivo di Alan Greenspan alla guida della Federal Reserve, le restrizioni vennero continuamente diminuite, finchè nel 1996 non si arrivò a permettere l’investimento del 25% delle attività. A questo punto il Glass-Steagall Act non aveva più valore sostanziale, e infati venne formalmente abolito nell 1999, quando al Congresso passò il “Financial Modernization Act”, che cancellò definitivamente ogni restrizione verso la combinazione e la fusione di banche commerciali, banche d’investimento e compagnie di assicurazione. Questa decisione diede spazio alla formazione delle c.d. “mega-banche” (il cui esempio più storico è dato dalla formazione di Citigroup, che diventò l’istituzione finanziaria più grande del mondo), aiutate anche dal “Riegle-Neal Interstate Banking and Branching Efficiency Act” del 1994, che eliminò i limiti alla formazioni e all’espansione delle filiali. La direzione ormai era chiara: molte meno banche, ma molto più grandi e potenti.

L’ultimo passo nel cammino della deregulation riguardò i famosi derivati (il cui funzionamento tecnico illustrerò successivamente). Essendo strumenti molto adatti alla speculazione, i derivati ebbero uno sviluppo fortissimo durante gli anni ’90, e Greenspan e Rubin (il segretario del Tesoro) decisero che non c’era motivo di interferire con queste innovazioni del mercato. Così nel 2000 con il “Commodity Futures Modernization Act” gli strumenti derivati uscirono dalla regolamentazione della Securities Exchange Commission. In un mercato completamente non regolamentato, il giro d’affari aumentò ad una rapidità impressionante, passando dai 100mila miliardi di dollari del 2001 ai più di 500mila miliardi attuali. Con un mercato dei titoli totalmente informatizzato, e senza la minima supervisione, i titoli venivano scambiati così velocemente e liberamente che le istituzioni non sapevano mai esattamente cosa possedevano e in che quantità.

Come colpo finale, nel 2004 le banche d’investimento fecero pressione perchè fossero ridotti i criteri del rapporto capitale/debito, così da poter fare un uso ancora più incisivo della leva finanziaria. La SEC approvò la proposta, diminuì i criteri di capitale e creò un programma di supervisione per il quale le istituzioni finanziarie avrebbero dovuto volontariamente inviare dei report alla SEC riguardo alle proprie attività. Sostanzialmente il lavoro di monitoraggio veniva appaltato alle stesse banche d’investimento che dovevano essere controllate. Il Governo e i supervisori sembravano fidarsi ciecamente dell’autoregolamentazione delle istituzioni finanziarie, basandosi su un fantomatico principio di “reputazione” che le avrebbe tenute lontane da eccessivi rischi ed eventuali insolvenze.

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[...continua...]

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