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Dalla deregulation alla crisi: la “finanziarizzazione” dell’economia – Parte 2

Creato il 20 settembre 2010 da Ronin

Dalla deregulation alla crisi: la “finanziarizzazione” dell’economia – Parte 2

3. Gli strumenti e le tecniche della nuova finanza

Prima di terminare il resoconto storico, che inevitabilmente sarà concentrato sulla crisi finanziaria esplosa nel 2007, mi sembra utile fornire un’infarinatura tecnica dei più importanti strumenti finanziari moderni. Sarebbe difatti molto difficile e incompleto parlare dei problemi attuali della finanza senza dare un’idea di quali siano i suoi metodi più innovativi e problematici.

3a. Gli strumenti derivati

I derivati sono strumenti finanziari il cui valore è determinato dal prezzo di mercato di un altra attività (il c.d. “sottostante”, che può essere un’azione, un’obbligazione, un indice, una valuta, una merce, ecc.). Nel contratto derivato le parti si impegnano all’acquisto o alla vendita di una determinata attività a un dato prezzo e a una data scadenza.

I derivati nascono con finalità di copertura del rischio (hedging): se si dispone di un’attività e si temono le fluttuazioni del prezzo, si può utilizzare un contratto derivato di uguale importo e di segno opposto, così che le eventuali riduzioni di prezzo del bene sottostante siano compensate dall’aumento di prezzo del contratto derivato, e viceversa. In questo modo il rischio viene minimizzato, rendendo gli investimenti molto più sicuri.

Ma i derivati sono molto appetibili anche perchè possono essere usati con finalità di pura speculazione (trading), scommettendo sulla variazione del valore dell’asset. Questo è esattamente quello che fa chi vuole aumentare la propria esposizione al rischio verso certi fattori di variabilità, così da poter conseguire alti profitti nel caso in cui le sue previsioni siano state azzeccate. Ad esempio, se un investitore ritiene che il dollaro si apprezzerà, può acquistare dollari a termine, fissando un prezzo in euro da pagare a scadenza (poniamo tre mesi) per l’acquisto dei dollari. Alla scadenza del contratto, se le sue previsioni si realizzano egli comprerà i dollari al prezzo pattuito e potrà rivenderli subito sul mercato ad un prezzo maggiore. Se invece la sua previsione si rivelerà errata subirà una perdita, in quanto comprerà dei dollari ad un prezzo superiore a quello di mercato.

Le tipologie di derivati, nascendo come “combinazione” di tanti strumenti finanziari diversi, sono teoricamente infinite, e infatti praticamente ogni giorno ne nascono di diversi. Ce ne sono però alcuni che hanno acquistato un’importanza preponderante, come i futures, i forwards, gli swaps, le options, ecc., il cui giro d’affari mondiale è ormai di migliaia di miliardi di dollari (500 “trillions” nel 2006, cioè 500mila miliardi di dollari).

3b. La cartolarizzazione

Definire la cartolarizzazione (securitisation, in inglese) non è semplicissimo, in quanto può assumere una molteplicità di forme. L’obiettivo della cartolarizzazione è in pratica la conversione di attività illiquide in titoli negoziabili sul mercato dei capitali. Se ad esempio un intermediario finanziario (in questo caso detto originator) è titolare di un credito e lo vuole smobilizzare perchè ha bisogno di liquidità, lo cede ad un soggetto, il cessionario (detto Special Purpose Vehicle, SPV), il quale emette e colloca sul mercato titoli garantiti dagli attivi del credito (detti Asset-Backed Securities, ABS). In questo modo il credito viene ceduto a terzi, e il rimborso dovrebbe garantire la restituzione sia del capitale che degli interessi. Se il credito diviene inesigibile, chi compra titoli cartolarizzati perde sia gli interessi che il capitale versato.

L’idea innovativa è la possibilità di trasformare e far circolare, sotto forma di titoli negoziabili, qualsiasi tipo di attività reale sulla quale si possiede un credito (mutui, credito al consumo, finanziamenti sull’acquisto di aiuto, leasing, carte di credito, ecc.), creando nuove opportunità di investimento e ampliando l’offerta dei profili rischio/rendimento.

In anni recenti, però, anche questo nuovo strumento ha trovato impieghi poco trasparenti, che sono stati una delle cause della crisi finanziaria. Tutto ha inizio nel momento in cui molte aziende che avevano concesso mutui subprime (cioè a clienti la cui solvibilità è molto dubbia, e quindi in condizioni normali non potrebbero accedere ai tassi d’interesse di mercato) decidono di cartolarizzare questi crediti “problematici”, rivendendoli sul mercato. L’idea era semplice: se io ho un debitore che con ogni probabilità non riuscirà a restituirmi più che 60 su 100, allora rivendo il credito a 60, così posso investire la liquidità ottenuta e recuperare la perdita. Ma poiché questi crediti sono poco appetibili, l’ingegneria finanziaria ha trovato il modo di “impacchettarli” con altri titoli più sicuri, creando una sintesi il cui rischio, e quindi il rating, sono considerati accettabili, in quanto l’insolvibilità del credito originario è bilanciata dai titoli più affidabili. Il problema è che il rischio del credito non viene realmente diminuito, ma solo “mascherato”. Dopo alcuni passaggi diventa praticamente impossibile anche capire cosa contengono questi titoli cartolarizzati, ma le banche se ne preoccupano relativamente, visto che i titoli vengono comprati e rivenduti in continuazione. Il guadagno è determinato dalla semplice circolazione di titoli (quindi di denaro): diventa assente qualunque idea di investimento dietro alle operazioni.

3c. L’utilizzo del leverage

La leva finanziaria (leverage, in inglese) è uno strumento che permette di “prendere posizione” su un certo ammontare di denaro con un esborso molto inferiore. Molti degli strumenti derivati sfruttano la leva: ad esempio nei contratti per le opzioni o per i forwards non si paga alla stipulazione ma solo alla scadenza, esclusa una piccola cifra di premio (detto margine) per i costi di transazione. Quindi con, ipotizziamo, 10$ di margine è possibile stipulare un contratto con valore nominale di 100$, realizzando un investimento su un ammontare che è uguale al reciproco del margine. Nel nostro esempio, il margine è il 10% del nozionale, quindi una variazione del sottostante determina una variazione della posizione di 10 volte maggiore (1/0.10). Ad esempio, se il valore del titolo aumentasse del 5%, passando da 100 a 105, il guadagno sarebbe uguale a 5$. Ma all’inizio l’esborso di denaro è stato di 10$, quindi a ben pensarci si è ottenuto un profitto pari al 50% del capitale: un investimento niente male! E’ facile immaginare che con cifre maggiori (basterebbe aggiungere un paio di zeri a tutti i valori mostrati..) i profitti possono essere altissimi, relativamente all’ammontare pagato inizialmente. Ma è altrettanto intuitivo che possono essere molto grandi anche le perdite, in quanto una diminuzione del valore del titolo del 5% causerebbe la perdita di metà dell’investimento.

In definitiva, attraverso l’uso della leva finanziaria le banche d’investimento e gli operatori hanno la possibilità di investire su un ammontare di titoli dal valore molto superiore al capitale che dispongono. Questo può portare a grandi profitti ma anche a rapidi fallimenti.

3d. Gli hedge funds

Gli hedge funds sono fondi d’investimento che raccolgono soldi dai risparmiatori e li investono nel mercato finanziario. Come indica il verbo stesso to hedge (coprire o limitare, in inglese) dovrebbero basarsi sul principio della diversificazione del portafoglio, con il fine di minimizzare il rischio che le fluttuazioni dei mercati minaccino i soldi degli investitori. In realtà il gioco è molto più sottile e spudorato, e la volatilità del mercato viene sfruttata per ottenere i maggiori utili possibili.

Il meccanismo classico è quello di vendere allo scoperto alcune azioni e comprare a termine altre azioni. L’idea è complessa ma affascinante: per vendere un’azione allo scoperto la si deve chiedere “in prestito” al suo proprietario, con la promessa di restituirgliela successivamente. A questo punto si vende l’azione presa in prestito, con l’obiettivo di riacquistarla prima della data di restituzione, ovviamente con la previsione che il prezzo scenderà. In questo modo si hanno due vantaggi: al momento della vendita si entra in possesso di denaro liquido, che può essere a sua volta investito, e quando si ricompra l’azione si guadagna anche dalla differenza fra il prezzo a cui era stata venduta e il prezzo inferiore a cui viene riacquistata.

Questo sistema permette di effettuare operazioni che vanno ben oltre alla propria capacità finanziaria, poiché gli acquisti a termine vengono effettuati in gran parte con il denaro ottenuto dalle operazioni allo scoperto. Inoltre, gli investimenti non sono casuali: le operazioni allo scoperto vengono effettuate su titoli sicuri e liquidabili facilmente, mentre le operazioni a termine puntano su titoli più rischiosi e illiquidi, e quindi anche più remunerativi. Gli hedge funds riescono così a operare su quantità di denaro anche centinaia di volte superiori al capitale conferitogli dai risparmiatori. Il capitale stesso serve più che altro come garanzia, per convincere la controparte di essere in grado di onorare quanto promesso, più che per gli investimenti veri e propri, che vengono effettuati praticamente solo grazie a questo particolare meccanismo di leva.

All’inizio gli hedge funds non creavano grande preoccupazione: gli investitori interessati erano di norma persone molto ricche e con una certa esperienza nel campo della finanza, e il governo riteneva che fossero in grado di badare a loro stessi. Ma alla fine degli ann ’90 la competizione fra gli hedge funds arrivò ad un livello per cui era sempre più difficile guadagnare su queste operazioni, in quanto tutti utilizzavano le stesse strategie. Alcuni fondi iniziarono a restituire il denaro agli investitori, dichiarando che le possibilità di investimento erano troppo poche. E visto che gli hedge funds si muovevano verso le possibilità di guadagno più remote, ormai alcuni titoli non avevano altro mercato che quello degli hedge funds stessi. Così quando i fondi provarono a vendere tutti assieme non trovarono più acquirenti: i premi sulla liquidità e sul rischio schizzarono alle stelle e molti fondi si trovarono sull’orlo del fallimento.

4. La crisi finanziaria del 2008

Nonostante la crisi abbia contagiato ormai buona parte del sistema economico, ci sono alcuni eventi che si possono definire “scatenanti”. E il primo di essi prende le mosse esattamente dal fenomeno della cartolarizzazione spiegato più sopra: il mix di attività impacchettate nelle securities permettevano alle istituzioni finanziarie di trasformare assets illiquidi come i prestiti in strumenti estremamente liquidi e appetibili per il mercato. Negli anni ’70 le prime cartolarizzazioni erano operazioni sicure e implicitamente garantite dal governo, e non avevano quindi un profilo di rischio particolarmente alto. Ma già nell’82 venne dato il via libera a tipologie di prestiti ipotecari con caratteristiche “esotiche”, come tassi d’interesse inizialmente bassi che crescevano negli anni. Le banche iniziarono a puntare su target diversi, allargandosi anche ai clienti a basso reddito e ad alto rischio di insolvenza, i famosi subprimers. Il mercato divenne sempre più profittevole, e questi prestiti atipici vennero sempre più incoraggiati.

Nel frattempo, la politica di riduzione dei tassi della Fed proseguiva senza ripensamenti. Anche dopo lo scoppio della bolla delle “dotcom”, Greenspan continuò a ritenere che il basso costo del denaro fosse una buona cosa per l’economia e continuò suo malgrado ad alimentare l’“esuberanza irrazionale dei mercati”, parafrasando una sua stessa famosa espressione.

Questi due fenomeni, presi insieme, alimentarono il crescente senso di sicurezza riguardo alle performance dell’economia: con i tassi d’interesse così bassi e i prezzi delle case così alti le famiglie letteralmente correvano a stipulare un mutuo, sicuri che l’immobile acquistato si sarebbe apprezzato sempre di più, diventando un investimento molto profittevole.

Ma la cosa che dovrebbe far riflettere è il motivo per cui le banche concedevano mutui con anticipi irrisori e con rate così alte che andavano ben oltre alle possibilità degli acquirenti. I motivi sono sostanzialmente due: intanto loro stesse erano convinte che i prezzi sarebbero saliti ancora. E finchè i prezzi salgono la situazione è sotto controllo: se infatti il mutuatario non riesce più a pagare le rate può fare un’ipoteca sull’immobile per ottenere liquidità, o in casi estremi può rivendere la casa e rimborsare il mutuo. Secondo, i finanziatori non potevano comunque essere preoccupati della qualità dei propri mutui, perchè li avevano già rivenduti sul mercato attraverso le cartolarizzazioni!

Le banche erano riuscite a trovare un nuovo modo di fare business cavalcando l’onda della bolla speculativa: il mercato dei prestiti continuava ad espandersi, generando enormi possibilità di profitto, e i rischi delle operazioni venivano spezzettati e distribuiti sul mercato attraverso complessi strumenti finanziari spacciati per investimenti sicuri. Se a questo si aggiunge la ridottissima regolamentazione a cui si era pervenuti dopo decenni di deregulation, è facile capire che una simile precarietà e vulnerabilità del sistema non poteva durare molto.

Come suggerisce fin troppo facilmente l’immagine, una “bolla”, in quanto tale, è destinata prima o poi a scoppiare. Un bel giorno, senza particolari ragioni se non la classica “goccia che fa traboccare il vaso”, le vendite di immobili, e quindi di mutui, cominciarono a calare. I prezzi erano saliti talmente tanto che era stato raggiunto il livello di saturazione, e ormai stipulare un mutuo era diventato davvero impossibile per gran parte degli americani, anche con le condizioni favorevoli dei subprime. E ovviamente dopo qualche mese, a causa del calo nelle vendite, i prezzi cominciarono a calare per la prima volta dopo decenni, prima lentamente e poi sempre più rapidi. A questo punto gli immobili erano svalutati e pressochè invendibili, e i tassi di insolvenza dei mutuatari crebbero enormemente. E poiché i pignoramenti, anche se attuabili in linea teorica, sono in realtà molto costosi e inefficienti (a causa delle spese legali, del degrado che subiscono le case vuote, del tempo che si perde, ecc.) e permettono di recuperare solo circa la metà del valore originario, tutti i titoli di credito cartolarizzati si trasformarono in investimenti dal valore in caduta libera.

Ormai sia dalla parte dei debitori che da quella dei creditori la situazione era drammatica: i primi si trovarano con immobili deprezzati, addirittura con un valore “negativo”, nel senso che il mutuo valeva più della casa, e quindi nemmeno rivendendola si poteva rimborsare il finanziamento. I secondi, invece, oltre a perdere grandi quantità di soldi, persero praticamente ogni fiducia in quel “sistema bancario-ombra” che fino a poco prima esaltavano come perfetta macchina da profitto. Le perdite subite li costrinsero a liquidare frettolosamente alcune attività per ripianare i bilanci, facendo perdere ulteriore valore agli stessi assets e costringendo ad altre liquidazioni, in un processo autoalimentante che si può considerare ormai il marchio di fabbrica di ogni crisi finanziaria (si pensi alle classiche “corse agli sportelli”). Le maggiori banche d’investimento si trovarono sull’orlo del baratro, e in più di un caso ci finirono dentro: Bear Stearns venne venduta a JP Morgan, Lehman Brothers dichiarò bancarotta, mantre Bank of America, Citigroup e AIG dovettero ricevere un’iniezione di capitali dal governo per non fallire. E il sistema bancario-ombra (cioè quella sfera di investitori e speculatori più spregiudicati, che operava ai margini del mercato) subì un massiccio deflusso di capitali a causa della comprensibile perdita di fiducia nei confronti dei derivati.

Ma in tutto questo cos’hanno fatto la Federal Reserve e il Tesoro? Le misure anticrisi sono state principalmente finalizzate a fermare la spirale discendente delle perdite e a ridare fiducia ai mercati. Venne approvato il “Temporary Liquidity Guarantee Program”, che metteva una garanzia federale sulle nuove emissioni di debiti, con il fine di evitare la strozzatura del credito causata dal panico. Con l’“Housing and Economic Recovery Act” il governo si impegnava a garantire fino a 300 miliardi dei mutui subprime, alla condizione che i prestatori svalutassero il valore del debito fino al 90% del valore attuale della casa. Infine l’“Emergency Economic Stabilization Act” del 2008 autorizzava il Tesoro a utilizzare 700 miliardi di dollari per comprare i “titoli-spazzatura”, ormai invendibili, delle banche e iniettare così capitale fresco nel sistema bancario.

Inoltre, a livello di politica monetaria, la Fed decise di tagliare il tasso overnight (quello a cui le banche si prestano vicendevolmente i fondi, che è il classico strumento che la banca centrale usa per influenzare i tassi d’interesse dell’economia reale), che passò dal 5% di prima della crisi ad un tasso effettivo pari a zero a inizio 2009.

Il livello di interventismo della Fed è probabilmente senza precedenti nella storia. L’enorme quantità di denaro direttamente utilizzata per risollevare il mondo della finanza in difficoltà viene ora vista dall’opinione pubblica come un immeritato aiuto verso i responsabili del disastro, e questo certo non contribuirà molto a far tornare la fiducia nei confronti delle istituzioni finanziarie. D’altronde non c’erano altre soluzioni realistiche, se si vuole escludere il collasso del sistema finanziario. E poiché, volenti o nolenti, le banche sono necessarie, si è ritenuto che salvarle fosse il male minore (anche se questo pone in modo ancora più forte il problema dell’impunità de facto di queste istituzioni). Inoltre la politica di abbassamento dei tagli sembra meno incisiva che in passato e fatica non poco a ridare liquidità al sistema, e non è tutt’ora chiaro il motivo: potrebbe c’entrare la misura davvero enorme delle perdite subite, ma forse si è anche arrivati ad un livello di “finanziarizzazione” tale che anche gli aiuti dall’alto sono in grado di fare poco per far tornare a regime il sistema. E viene quasi da pensare che, per com’è strutturata la finanza odierna, l’economia non si riprenderà finchè gli investitori non troveranno una nuova bolla da gonfiare, ricominciando con un ciclo apparentemente infinito di depressione ed euforia.

5. I conflitti della finanza moderna

A questo punto mi sento di poter fornire un quadro, anche se inevitabilmente incompleto, delle “patologie” che affliggono la finanza della nostra epoca, dando anche un’accenno di quelle che sono le proposte attuali per risolverle. Ed è interessante notare come questi problemi siano quasi sempre riconducibili a visioni differenti e contrapposte dell’economia e dei suoi fini.

Intanto, per iniziare con agli aspetti più “tecnici”, sembra ormai assodato che il concetto di “libero mercato” non vada identificato con un mercato senza regole. Il principio della libera iniziativa economica è alla base dell’etica e della cultura occidentale, e in quanto fonte della prosperità e del benessere della nostra epoca non credo che vada messo in discussione. Ma così come ogni aspetto della convivenza civile è regolato da leggi, così deve essere anche per l’economia e la finanza: l’idea che questi mondi siano come “bolle” a parte, in cui tutto funziona spontaneamente e le istituzioni non devono mettere il naso, è profondamente sbagliata e, mi viene da dire, portata avanti in malafede per l’interesse di pochi. Non c’è nessun motivo per pensare che un sistema di regole ben pensate ed equilibrate, che non soffochino e che non allentino, debbano creare problemi all’attività economica. E’ inevitabile che in contesti asimmetrici come quelli in cui si muovono i vari attori dell’economia sia necessaria supervisione e regolamentazione per far funzionare il meccanismo senza scosse, e questo dovrebbe essere accettato di buon grado da tutti, anche se questo significa investimenti meno esotici e profitti più bassi. In questo senso non appare sufficiente il principio della self-regulation, che unisce nella stessa persona giudicante e giudicato, con ovvi conflitti d’interesse, e sembra inadeguato, o comunque migliorabile, anche il sistema delle agenzie di rating, che vengono sovvenzionate dalle stesse aziende che devono valutare. Sarebbe necessario che il controllo venisse effettuato da istituzioni super partes e democraticamente legittimate, come possono essere quelle governative. Creare un sistema di regole e controlli interamente gestito dallo Stato è d’altronde l’unica soluzione moralmente accettabile, nel momento in cui le banche e gli attori della finanza sono troppo importanti per colare a picco. Non si può “privatizzare gli utili e socializzare le perdite”: se un’istituzione finanziaria viene ritenuta così fondamentale da avere il privilegio di essere salvata dallo Stato nei momenti di difficoltà, allora deve anche acconsentire ad essere messa sotto al suo controllo.

Dopo la crisi del 2008 sono già molte le idee proposte per migliorare il sistema: alcuni ritengono che una tassa sulle speculazioni (la famosa “Tobin Tax”, ovviamente adattata ai tempi) sarebbe utile, se non come deterrente, almeno come reperimento di risorse monetarie per far fronte alle crisi.

Il Financial Stability Forum, supervisionato da Mario Draghi, sta mettendo a punto una serie di regole (già battezzate “Basilea 3”, per enfatizzare il punto di svolta rispetto al sistema passato) per tenere a freno gli eccessi della finanza. Con questo obiettivo l’Unione Europea sta elaborando un sistema di supervisione che operi sincronicamente sul macro (evitando gli shock e le crisi sistemiche) e sul micro (controllando più a fondo lo stato delle istituzioni finanziarie), attraverso la creazione di due organismi in comunicazione fra loro, l’European Systemic Risk Board e l’European System of Financial Supervision.

Entrando nel merito delle finalità della finanza, ed entrando nel difficile ambito dell’etica economica, trovo che risaltino particolarmente alcuni conflitti “strutturali”. E’ infatti mia opinione (ma non sono certamente l’unico a pensarla così) che buona parte dei problemi attuali dell’economia siano riconducibili al contrasto fra breve periodo e lungo periodo: è infatti evidente che i guadagni immediati non vadano molto d’accordo con gli investimenti a lungo termine. La finanza odierna gioca soprattutto sulle oscillazioni giornaliere delle borse, su compravendite continue e istantanee, nonchè su strumenti di ingegneria finanziaria che servono più a “sfruttare i gonzi”, come dice Paul Krugman, che a far incontrare domanda e offerta. Ma se manca una visione di lungo periodo, che abbia come finalità un miglioramento a lungo termine, l’economia rimarrà sempre bloccata nelle dinamiche patologiche che abbiamo visto negli ultimi anni.

Ed è qui che entra il gioco la differenza fra investimenti e speculazioni: l’obiettivo per cui nasce la finanza è di rendere più efficiente il sistema economico, permettendo a chi necessita di denaro di prenderlo a prestito e a chi ne ha in surplus di prestarlo, guadagnando una percentuale. Questo sistema è realmente benefico, in quanto aiuta l’economia reale a crescere e a innovarsi. Il prestito che una banca fa ad un imprenditore che vuole mettere in piedi un’attività ha un triplice effetto: è fonte di guadagno per il prestatore, rende possibile realizzare i progetti del debitore, ed ha anche una sorta di valore sociale, in quanto è fruttifero per il futuro della società nel suo complesso. La speculazione, invece, non ha nessun tipo di utilità sociale, perchè non stimola un’allocazione più efficiente delle risorse, ma anzi semmai le risorse le brucia (e qui è rilevante anche la differenza fra banche commerciali e banche d’investimento, le cui finalità e attività sono radicalmente diverse, allo stesso modo in cui è molto diversa la solidità delle prime e il perenne stato di rischio delle seconde). Giocare sulla volatilità di un titolo, che si compra e si rivende dopo pochi minuti, magari con un profitto di migliaia di dollari, serve solo all’arricchimento degli operatori del settore e a far circolare denaro, senza nessun tipo di lungimiranza e di obiettivo che non sia quello del massimo profitto individuale.

C’è poi un conflitto, apparentemente insanabile, fra l’aspetto micro e quello macro dell’economia, cioè fra l’utilità dell’individuo e quella della società: anche se sarebbe ottimale che coincidessero, come si è creduto per secoli, è ormai evidente che le cose non stanno proprio così. La massimizzazione del profitto del singolo raramente è in sintonia con quello che è il meglio per la comunità nel suo complesso: è vero che l’intraprendenza economica è alla base del progresso, ma se bastasse la pura avidità personale a creare un benessere generale non ci troveremmo in un mondo profondamente diseguale, instabile e problematico come quello attuale. Ed è in questo senso che il ruolo della politica e dei governi ha un’importanza fondamentale, per fornire una struttura regolamentata e indirizzare una moltitudine di singole volontà verso qualcosa che sia “la miglior situazione possibile” per tutti.

E’ per questo che un altro conflitto esemplare è quello fra ciclicità e sostenibilità: è incredibile notare come l’economia attuale abbia un movimento “ondulatorio”, in cui i picchi di profitto sono subito seguiti da momenti recessivi, in un alternarsi apparentemente infinito. Può darsi che sia intrinseco all’economia, e in generale a tutte le attività umane, che periodi espansivi siano seguiti da altrettanti momenti di contrazione, ma non è detto che gli effetti debbano essere sempre così amplificati: probabilmente se i policymakers avessero il coraggio di una visione ad ampio raggio, che guardi non alle successive elezioni ma piuttosto alle successive generazioni, l’economia potrebbe tornare a riappropriarsi del suo significato originario di “gestione della casa”, che nel nostro caso è rappresentata dal mondo e dalla società in cui viviamo. E se è vero che “nel lungo periodo saremo tutti morti”, è anche vero che la società in cui siamo inseriti sarà, si spera, ancora viva e vegeta, ed è dovere di ogni individuo fare del proprio meglio per mantenerla tale.

6. Conclusione: il valore sociale dell’attività finanziaria

Dopo questa disamina sul mondo della finanza, con le sue dinamiche, strutture e strumenti, mi piace concludere con una riflessione del Premio Nobel Joseph Stiglitz, che riflette quello che penso anch’io riguardo al valore sociale dell’economia e della finanza:

Credo che debba essere data ampia libertà agli uomini di negoziare gli uni con gli altri, finchè non rechino danno ai terzi. Ma le istituzioni finanziarie sono responsabili dei soldi di altri. Quando falliscono, anche il nostro sistema economico fallisce e vi è un gran numero di vittime innocenti. È per questo che il governo è intervenuto con i salvataggi, non soltanto in questa occasione ma ripetutamente. Il settore finanziario ha ripetutamente mostrato che, senza regolamentazione, semplicemente non è in grado di essere responsabile della gestione di soldi altrui in modo prudente, senza mettere a repentaglio l’intera economia. E i depositanti comuni, i piccoli investitori e coloro che risparmiano per la loro pensione semplicemente non sono in grado di esercitare autonomamente un’adeguata supervisione. Questa costituisce un bene essenzialmente pubblico. Tutti beneficiamo da istituzioni finanziarie ben regolate. Le nostre istituzioni finanziarie hanno fallito, ma in parte hanno semplicemente fatto quello che fanno le imprese del settore privato, hanno massimizzato il benessere dei loro manager. Oggi abbiamo bisogno di un sistema regolatore degno del ventunesimo secolo per essere sicuri che, in futuro, essi prendano in considerazione le conseguenze più ampie delle loro azioni”.

Dalla deregulation alla crisi: la “finanziarizzazione” dell’economia – Parte 2

Jacopo Volta  -  09/09/2010

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