Si è tenuta martedì mattina a Roma la conferenza stampa con l’attore statunitense Matthew McConaughey, protagonista del film Dallas Buyers Club, il nuovo dramma del regista canadese Jean-Marc Vallée, ambientato nel 1986 in Texas. La pellicola, presentata in anteprima durante la scorsa edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, vede al centro della storia il rude Ron Woodroof, un cowboy omofobico al quale viene improvvisamente diagnosticato il virus dell’HIV.
Fra problemi personali di tossicodipendenza, corsi di medicina alternativa e riluttanza delle imprese farmaceutiche, Ron dovrà vedersela con i trenta giorni di vita che gli sono stati dati dai medici, e nel lungo cammino che lo aspetta dovrà affrontare anche i suoi stessi fantasmi, stringendo per la prima volta una sincera amicizia con la transessuale sieropositiva Rayon (Jared Leto). Matthew McConaughey e Jared Leto, ambedue dimagriti notevolmente per la parte, hanno ricevuto critiche molto positive a livello mondiale, tanto che sono stati di recente candidati agli Oscar 2013, rispettivamente come miglior attore protagonista e miglior attore non protagonista. Dallas Buyers Club verrà distribuito da Good Films nelle sale italiane a partire da questo giovedì 30 gennaio, in circa 150 copie.
Matthew, quando hai cominciato a interessarti al progetto?
La sceneggiatura è arrivata sulla mia scrivania circa cinque anni fa. Non c’era ancora nessun nome coinvolto, che fosse legato alla regia o alla recitazione. Dopo averla letta ho deciso di dover partecipare al film, anche se non sapevo ancora sotto quale forma. Mi sono detto che l’avrei realizzato entro quell’anno, e invece è slittato all’anno successivo. Ogni anno dicevo “Quest’anno lo facciamo” e non accadeva mai. Pensavo: “Questa sceneggiatura ha le zanne, mi ha azzannato!”, e ormai mi aveva preso. L’anno in cui siamo riusciti a realizzarlo ero deciso a farlo entro l’autunno. Ci siamo incontrati io e Vallée, il regista, a New York, e anche lui si è convinto, ma ci mancavano i soldi. Non abbiamo rinunciato nonostante tutto: non abbiamo mai mollato e alla fine ce l’abbiamo fatta. Persino quando i finanziamenti sono spariti all’ultimo minuto, prima d’iniziare con le riprese, e io nel frattempo avevo già perso più di venti chili, qualcuno ha cominciato a dire che era il caso di rimandare tutto alla primavera successiva e noi abbiamo tenuto duro, facendocela quello stesso autunno.
Avete ricevuto molti rifiuti. Cosa spaventava i produttori, in particolare, della storia?
Abbiamo ricevuto ben 137 rifiuti. Quando qualcuno decide di investire dei soldi in un film, quello che pensa è di voler fare della buona arte, è vero, ma anche di volerne trarre dei soldi. Quando leggi un rigo di presentazione del genere – “film d’epoca, dramma sull’HIV, eroe omofobico” – la prima cosa che tutti pensano è: “I quattrini così non li vedrò mai!”.
Le cause farmaceutiche e le cure alternative: il tema ci riguarda molto, qui in Italia. Che ricaduta ha avuto questo aspetto del film in America e cosa ne pensi tu?
Io penso che i medici non sapessero assolutamente cosa fare, con l’HIV. Non sapevano che l’AZT [ndr: farmaco] ammazzasse anche tutte le altre cellule del corpo, oltre a uccidere quelle responsabili del cancro, e non avevano alternative a loro disposizione perché non avevano di certo soluzioni nascoste chissà dove. Peraltro trovare la cura per l’HIV non era in cima alla lista delle priorità di quel tempo. È stato proprio Ron Woodroof a fare rumore, a risvegliare quest’interesse. Ha gettato luce sul problema. Anche sulle medicine alternative: ha fatto capire che non erano sufficientemente studiate, che come nel suo caso potevano funzionare. Tra l’altro ha perso la sua causa in tribunale, ma ha sollevato un bel polverone e ha fatto sì che la pratica dello studio delle medicine per la cura dell’HIV abbia scalato più velocemente la pila di carte da prendere in esame. La questione delle medicine alternative resta comunque insidiosa. Perché impedire a una persona che non sa più che fare di prenderle? D’altra parte ci sono troppi elementi in gioco perché la situazione sia chiara. Quando vengono mescolati medicina e business ci sono sempre delle zone grigie. Io so di persone per le quali la medicina alternativa funziona, e di altre per le quali non funziona. Questa questione è particolarmente importante anche in America, specie con la riforma sanitaria approvata da Obama, ed è ciò che rende speciale il film: anche se è ambientato nel 1986, è estremamente attuale. Ho notato che la comunità gay lo ha accolto particolarmente bene. Molti sono venuti da me a dirmi di ricordarsi di quel terribile periodo della fine degli anni ’80. All’epoca l’argomento era tabù, era una vergogna essere affetti da questa malattia. Oggi mi rendo conto che alcune persone che conoscevo e che oggi non ci sono più erano probabilmente affette da HIV e non me ne hanno mai parlato.
Qual è stata la parte più difficile dell’interpretazione del tuo personaggio?
La sfida è stata che Ron Woodroof è un personaggio con tanta rabbia dentro di sé, che si scontra con varie entità: la morte, l’FBI… Mi sono voluto concentrare su tutte le variazioni di questa rabbia, affrontandola da una differente angolatura ogni volta, in maniera da non restituire come interprete una recitazione troppo ripetitiva.
Qual è stata la caratteristica del tuo personaggio che più è rimasta con te, e qual è stato il tuo rapporto con gli altri attori?
Ciò che ho appreso da Ron Woodroof è che se vuoi qualcosa, nella vita, te la devi procurare da solo. Interpretare questo ruolo me l’ha ricordato. Per quanto riguarda gli altri attori, Jennifer Garner la conoscevo in precedenza, avendo lavorato già assieme ne La rivolta delle ex, mentre Jared Leto l’ho incontrato davvero soltanto dopo aver terminato le riprese. Il giorno dopo ci siamo presentati ufficialmente, ma prima di quel momento non abbiamo mai avuto tempo per chiacchierare, né ci interessava particolarmente farlo. Io lo incontravo tutti i giorni come la transessuale Rayon, e lui incontrava me come Ron. È anche questo il bello del mestiere: quando lavori sei di fatto qualcun altro per tutto il tempo.
Perdere 23 chili non è un’impresa da poco, rimanendo in salute e dovendo affrontare un ruolo così impegnativo. Come ci sei riuscito?
Ho dovuto farlo con una certa precisione. Mi sono anzitutto consultato con un medico. Mi sono dato quattro mesi di tempo, perdevo circa un chilo e mezzo o due chili a settimana. Ho vissuto da eremita: mi sono rinchiuso dentro casa, non ho partecipato agli eventi sociali, non sono mai andato a incontri con persone nei ristoranti. Mi sono invece circondato di tutte le cose che riguardavano Ron Woodroof. La cosa sorprendente è stata che quanto più perdevo energia e potenza dal collo in giù, tanto più ne guadagnavo dal collo in su. Avevo meno bisogno di dormire, praticamente mi svegliavo tutte le mattine alle quattro a prescindere dall’ora in cui andavo a letto. L’energia che perdevo si andava ad accumulare tutta nella mia mente, proprio come succede a Ron man mano che il suo corpo rinsecchisce e la sua mente prospera del suo desiderio di sopravvivere, di vivere. L’ho riscontrato anche in un amico che soffriva di cancro: la sua mente era come quella di un uccellino affamato nel suo nido, che spira vita e desiderio di nutrirsi.
Hollywood ha sempre prediletto le trasformazioni fisiche degli attori, specie da belli in brutti. Secondo te la tua candidatura all’Oscar sarebbe arrivata comunque, se non avessi perso tutti quei chili? E come stai vivendo l’attesa di questa magica notte?
Spingersi oltre può essere una forma per esprimere se stessi, ma non significa che si sta facendo qualcosa di valido. Questo non è un film su “McConaughey che è diventato secco”, è un film su Ron Woodroof, e dopo la prima scena tu non vedi me ma vedi lui. Anch’io mi sono perso nel suo personaggio, ed è evidente che questa è una storia vera, lo percepisce tutto il pubblico, che gli piaccia o meno. Ciò vale anche per Jared Leto, naturalmente: è la storia a prendere il sopravvento. Per quanto riguarda gli Oscar, non sto vivendo in un’atmosfera di aspettativa, mi sto godendo questo periodo: sto viaggiando per il mondo per raccontare la mia esperienza in questo film, ed è il film stesso a precedermi. Il film arriva prima di me, non ha bisogno di promozione, parla da solo. Potrei parlarne per i prossimi cento anni e non mi stancherei mai, perché è speciale e ne sono estremamente orgoglioso.
Hai cominciato a recitare catturando subito l’attenzione di Hollywood e del pubblico, ma solo negli ultimi anni ti sei focalizzato maggiormente su ruoli più impegnati, come in Killer Joe, Mud e Dallas Buyers Club. Cos’è cambiato: è una questione di scelte, di offerta, oppure una tua maturazione personale?
Credo che sia stata una combinazione di questi tre elementi. È un’ottima domanda alla quale ho cercato io stesso di trovare una risposta. Mi ricordo che quattro anni fa ero arrivato a un punto della mia carriera in cui ero soddisfatto di ciò che facevo, però sentivo di volere qualcosa di più. Ho deciso quindi di ricalibrare il rapporto con il mio lavoro. Avevo una vita più avventurosa, eccitante della mia carriera, così ho cercato di dare una scossa a quest’ultima. Volevo ricevere l’offerta di ruoli che mi sfidassero: che mi facessero sentire il terreno mancare sotto i piedi. Ho detto di no a molti film d’azione, commedie romantiche… mia moglie mi disse che prima o poi il filone si sarebbe esaurito. E in effetti per un certo periodo non mi è stato offerto più niente. Però mi sono potuto permettere questo lusso, in termini economici, diciamo, e nel frattempo è nato anche il mio primo figlio ed è stato bellissimo avere tutto questo tempo a disposizione, come padre. Dopodiché sono diventato una specie di “buona idea” per alcuni registi, come William Friedkin e Steven Soderbergh… ho dovuto “cancellare” il mio marchio, in un certo senso. Ma superata la quarantina, come tutti gli uomini, ho cominciato ad avere nuove aspirazioni lavorative e soprattutto familiari: quanto più un uomo si sente sicuro a casa, tanto più è in grado di volare alto e lontano da essa, io penso. Ho chiuso la mia società di produzione musicale, quella cinematografica… e mi sono detto di voler essere soltanto un attore a ingaggio.
Cosa provi a essere stato candidato all’Oscar insieme a Leonardo DiCaprio, col quale hai condiviso giusto di recente il set di The wolf of Wall Street di Martin Scorsese?
Io ho lavorato solo cinque giorni a The wolf of Wall Street, e Leonardo DiCaprio ha già ricevuto numerose candidature! Vi racconto una storiella, piuttosto. Quando ho scoperto che Scorsese mi voleva incontrare per il film, mi sono ricordato di aver frequentato la scuola di cinema della mia università nel 1992, dove studiavo proprio i film di Martin. Vent’anni dopo mi stavo dirigendo verso casa sua. Mi sono detto “Aspetta un attimo, io studiavo i suoi film!”. La prima cosa che ho notato dopo il nostro primo incontro è stata che lui ha una profondissima conoscenza del cinema. E poi che ama tanto le scene divertenti dei suoi film. Mi ha offerto il ruolo, per il quale però ho solo una scena-lampo… E io mi sono comunque informato sul personaggio, ho studiato per la parte, e sul set noi due ci siamo espressi per la maggior parte in termini musicali, poiché abbiamo iniziato subito a intenderci alla perfezione.
Cosa ne pensi de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, visto che è stato candidato all’Oscar per il miglior film straniero?
Non ho visto il film, ma ieri sera ho incontrato Sorrentino e ci siamo detti qualcosa che in quest’ambiente non ci si dice mai: “Ciao, ci vediamo agli Oscar”.
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