Sta di fatto che le perdite in fatto di blindati e carri armati sono incredibilmente alte e questo sta suonando come un campanello di allarme rosso in casa Nato: d’accordo che i sauditi non hanno la minima idea di come utilizzare le formazioni corazzate, ma la facilità con cui gli obsoleti missili anticarro risalenti all’epoca sovietica (Faktorija e il Konkurs soprattutto) di cui sono dotati gli Houthi fanno saltare anche i celebrati M1 Abrams, è un fatto del tutto imprevisto e inaspettato e che costringe a rivedere parecchie le strategie. L’idea di una forza d’intervento rapida e decisiva schierata contro la Russia, voluta dagli Usa e dunque dalla Nato l’anno scorso, si basava proprio sulla decantata invulnerabilità degli M1: i 160 carri di una brigata statunitense schierata tra la Polonia e i Paesi baltici pareva una temibile e inarrestabile punta di lancia pronta a squarciare il costato geografico della Russia. Adesso si deve prendere atto che tale invulnerabilità esiste solo nel contesto di guerre fortemente asimmetriche dove l’aviazione e le comunicazioni sono totalmente padrone del campo e possono proteggere costantemente le forze corazzate di terra quando siano usate in modo tatticamente coretto. In caso contrario esse appaiono vulnerabili anche ad armi relativamente datate.
Insomma sia l’intervento della Russia in Siria che ha svelato la straordinaria efficienza e potenza del sistema militare russo, sia questi segnali di allarme periferici, stanno mandando in loop l’informazione istituzionale Nato, ossia quella somministrata e diffusa attraverso i media maistream. Da una parte essa è impegnata ad asseverare la superiorità occidentale per minimizzare l’impatto sulle opinioni pubbliche dello scontro assurdamente aperto con Mosca, dall’altro non può svalutare troppo l’avversario con il possibile e nefasto risultato di danneggiare l’industria bellica. Deve reggersi in un equilibrio instabile fra questi due poli i cui termini cambiano ormai di giorno in giorno trasformando una strategia in caos. Ma fra i due elementi prevale comunque quello ideologico della superiorità anche perché secondo quanto scrivono diversi analisti di cose militari, in particolare Daniel Fielding, la selezione del personale di intelligence e persino di comando operativo avviene non sulla di capacità, ma di conformità ideologica e lealtà politica.
Così si è continuato a sottovalutare il sistema militare russo post sovietico, sia dopo la seconda campagna di Cecenia, che dopo la vicenda dell’ Ossezia del Sud che fu un capolavoro di efficacia e rapidità. Una vittoria totale e incontestabile divenne nella narrazione occidentale una conferma invece che una smentita delle scarse capacità delle macchina militare russa, cosa che ha posto le premesse essenziali della disgraziata avventura ucraina. Adesso certo non si può più essere avvolti come salami nel sudario del dogmatismo occidentale, afflitto tra l’altro dalla rudimentale distinzione alla giornata di buoni e cattivi, però anche il riconoscimento dell’insensatezza di certe tesi provoca effetti e avvitamenti grotteschi. Come quelli del tenente generale Ben Hodges, comandante generale dell’Us Army in Europa il quale dopo essersi detto preoccupato per l’efficienza militare russa, dopo aver riconosciuto la loro capacità di negare l’accesso al Mar Baltico e al Mar Nero, dopo aver ammesso che esse possono creare una bolla su un quarto del Mediterraneo a partire dalla sola base in Siria, conclude affermando che tali capacità “certamente non sono l’azione di una nazione che vuole essere partner responsabile nella comunità globale“. Parla quello del Muos, tanto per essere chiari.
Mi chiedo quale effetto avrebbe sulle opinioni pubbliche europee, già ampiamente ostili alle sanzioni contro Mosca di fatto imposte dagli Usa ai governanti europei, avere un quadro dei reali rapporti di potenza fra Nato e Russia e dunque un’ idea più realistica delle conseguenze dirette di un conflitto. Ma non c’è da preoccuparsi: nessuno lo dirà chiaramente nemmeno sotto tortura.