Dallo Zimbabwe agli Usa con NoViolet Bulawayo. Un libro splendido.

Creato il 01 dicembre 2014 da Leultime20 @patrizialadaga

Dicembre 2014 

NoViolet Bulawayo, nome d’arte di Elisabeth Zandile Tshele, nata in Zimbabwe trentatré anni fa, è la scrittrice rivelazione dello scorso anno negli Usa. C’è bisogno di nuovi nomi (We need new names), il suo romanzo d’esordio, tradotto in italiano da Elena Malanga per Bompiani, è entrato nella lista dei candidati al man Booker Prize 2013, cosa che non era mai avvenuta prima per un’autrice africana. Tradotto in numerose lingue, C’è bisogno di nuovi nomi, storia di una bambina delle baraccopoli dello Zimbabwe, che lascia famiglia e amici per trasferirsi negli Usa a casa di una zia, è oggi un successo riconosciuto. E basta leggere poche pagine per capire perché. C’è bisogno di nuovi nomi è un libro bellissimo, che trasporta il lettore nei luoghi e soprattutto nelle emozioni dei personaggi. Per me, una lettura che è stata un regalo di Natale anticipato.

Patrizia & Giuditta 2VociX1Libro è una rubrica che nasce dall’incontro di due persone distanti per formazione ed esperienze di vita, ma unite da una grande passione per i libri e la letteratura. Due donne, Giuditta e io, che si sono conosciute leggendo l’una il blog dell’altra senza essersi mai incontrate di persona (fino a settembre 2014), due “sentire” spesso discordanti ma sempre rispettosi e aperti al confronto. Da questa complicità è nata, tra un tweet e l’altro, l’idea della rubrica. Un luogo in cui confrontarsi su un libro diverso ogni mese in modo divertente e scanzonato, senza il rigore di una recensione, ma con l’attenzione ai dettagli. Una sorta di gioco (liberamente tratto dalle famose interviste della trasmissione “Le Iene”) che vi permetterà di conoscere nuovi romanzi e sorridere un po’.

C’è bisogno di nuovi nomi


NoViolet Bulawayo

Bompiani

Patrizia   twitter: @patrizialadaga Giuditta  twitter: @tempoxme_libri     www.libri.tempoxme.it

1. Dai un voto alla copertina e spiegalo

Voto: 10. Una copertina che si vede da lontano senza essere appariscente, un’immagine che racconta con immediatezza e simboli chiari la storia del romanzo (la bambina di colore e l’accenno di bandiera americana). Per me una copertina perfetta. Voto:8. Bella. Di quelle che non danno nell’occhio, ma hanno un loro senso intimo e segreto. Eccezionali le linee rosse orizzontali che la fanno somigliare a una bandiera inesistente, con una miriade di stelline-coriandoli. Il titolo poi è un tocco di poesia.

2. L’incipit è…

Geniale. In poche righe NoViolet Bulawayo riesce a spiegare che la voce narrante è una bambina, che i nomi bizzarri saranno la colonna portante del libro e che il luogo di cui si parla viene chiamato Budapest, ma non si trova in Ungheria.

Stiamo andando a Budapest: Bastard, Chipo, Diolosà, Sbho, Stina e io. Stiamo andando anche se non abbiamo il permesso di attraversare Mzilikazi Road, anche se Bastard dovrebbe badare a Frazione, la sorellina, anche se mamma mi ammazzerebbe se lo venisse a sapere

Stiamo andando a Budapest: Bastard, Chipo, Diolosà, Sbho, Stina e io.

Ci ho messo un po’ a capire che non era ambientato in Ungheria!
Un piccolo corteo, che presto cominceremo ad amare e a cui sentirci legati con tutte le viscere. Si entra subito nel ritmo della prosa di NoViolet Bulawayo con la secchezza delle frasi, la lucidità dello stile e la pregnanza del lessico. Un applauso a Elena Malanga, la traduttrice italiana, per la cura e la perfezione del dettato.

3. Due aggettivi per la trama

 Coinvolgente ed emozionante. Potente come un pugno ben assestato e dolce come una carezza piena di nostalgia.

4. Due aggettivi per lo stile

Giovanile e incisivo. Eccellente e lirico. Un perfetto miscuglio di lucidità e dolcezza.

5. La frase più bella

Per una volta non scelgo una bella frase (ce ne sono a bizzeffe), bensì un intero capitolo. Sul finire del libro NoViolet Bulawayo regala tredici pagine, riunite sotto il titolo “Come abbiamo vissuto”, che da sole valgono il libro. Tredici pagine in cui il lettore entra nel cuore di ogni immigrato arrivato negli Usa con una valigia piena di sogni che, poco a poco, ha dovuto smettere di sognare.

E quando sono arrivati da noi in America, affamati, scavati e pieni di speranza, li abbiamo abbracciati stretti e li abbiamo accolti in una patria che non era la nostra. Abbiamo annusato i loro vestiti e i loro capelli, li abbiamo pregati di darci notizie della nostra terra: notizie ordinarie, notizie straordinarie, notizie. Abbiamo chiesto loro di descriverci l’odore della terra appena prima della pioggia, l’esplosione delle formiche volanti quando dopo la pioggia si levano dal terreno come fuochi d’artificio.

L’incanto del libro risiede nel saper cantare la nostalgia, la rabbia, l’illusione con straordinaria limpidezza, rimanendo sempre misurato e sobrio. Un grande romanzo, un esordio folgorante.

6. La frase più brutta

In C’è bisogno di nuovi nomi il dolore, l’umiliazione e la povertà vengono raccontati in modo agrodolce e sempre toccante, perciò è difficile parlare di bruttezza, sia in senso stilistico che emotivo. Ho trovato orripilante solo la descrizione della morte di un cane, investito da un camion (ne cito solo una parte):

Peli bianchi e in alcuni punti striature rosse, come se una mano goffa avesse tentato di fare un disegno. Grossi denti. Carne maciullata. Una lingua rosa nell’atto di leccare la terra. Una zampa solitaria sollevata in un cinque perfetto. Ossa che uscivano da un lato della pancia.

Se l’aggettivo lo riferiamo alle atrocità e alle nefandezze della storia dello Zimbabwe o all’indifferenza e alle discriminazioni dell’America tante sono le pagine del libro che colpiscono per la passione con cui raccontano “il bisogno di nuovi nomi”. In questi momenti della storia Bulawayo scrive, però, le sue pagine più belle:

Anche alla gente di Paradise non esce un suono. C’è questo silenzio grande e nero, come quando ci si trova davanti a qualcosa di sacro. Ma negli occhi degli adulti vediamo la rabbia. È silente, ma c’è. Ma a cosa serve la rabbia se te la tieni dentro, come se fosse un cuore, come se fosse sangue, a cosa serve la rabbia se non ne fai niente, se non la usi per colpire o anche solo per urlare? Una rabbia così non vale nulla, non conta. È soltanto un mastino a cui mancano i denti.

7. Il personaggio più riuscito

Darling, la voce narrante. Credibile dalla prima all’ultima pagina. Ho amato Chipo da subito, con la sua precoce, feroce gravidanza e con l’orgoglio leonino con cui si confronta con Darling alla fine del romanzo. Ma molti personaggi sono stretti in fondo al mio cuore. Perché Bulawayo ha la strabiliante capacità di farli sentire veri, vividi, indimenticabili.

8. Il personaggio meno azzeccato

Zia Fostalina. Un personaggio interessante che non ha del tutto soddisfatto la mia curiosità. Le avrei dedicato qualche attenzione in più. Mi è sembrato troppo folclorico e poco congeniale al resto, in cui invece Bulawayo dribbla con estrema grazia il facile fallace passo del tribale, il Profeta Bitchington Mborro Rivelazione.

9 La fine è…

Dura ma efficace. In totale armonia con il resto del romanzo. Forte, potente, durissima, ripugnante anche, ma efficacissima.

10. A chi lo consiglieresti?

A tutti gli esseri umani dotati di anima e cervello. Per ricordarsi di essere, appunto, umani. Io lo farò leggere ai miei alunni a scuola, e quando consiglio un libro in classe è sempre perché lo giudico un capolavoro. Se va bene per loro, vuol dire che farebbero bene a leggerlo tutti.

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