Dance of the Dream Man

Creato il 15 gennaio 2011 da Elgraeco @HellGraeco

3 Febbraio 2013

Si è giunti a dire che Bowie fosse un vampiro, tra le tante. Perché sembra non invecchiare.
Il fatto è che ora la gente ha cominciato a crederci.
Si trovava in Inghilterra anche lui, prima che viaggiare diventasse un problema. Oggi è ancora qui, ma sotto scorta. Pare che le richieste dei suoi vecchi fan, ma anche di quelli dell’ultimo minuto, in tutto una cinquantina, di essere morsi e trasformati, e così salvati dalla Gialla, si siano fatte un po’ troppo pressanti. Tanto da costringere la sorveglianza privata della sua villa a respingere con gli idranti i pazzi intenti a scavalcare il muro. E a far intervenire la polizia in assetto anti-sommossa. Con conseguente rigurgito da Yellow Panic.
David è spesso sulla BBC, insieme a Cameron, ostentando sicumera.
Durante un talk-show qualcuno gli ha tirato contro una scarpa. Vecchia abitudine. Si scommette su quale dei due fosse il vero bersaglio, dal momento che erano uno accanto all’altro.
Io sono tra i pochi che sanno perché Bowie è in tv. Non è l’unico. Ci sono riusciti anche con Kate Beckinsale, l’eroina di PandemYc (2012). Colei che ha sconfitto il prione. Ce l’ha fatta all’ultimo secondo, quando tutto, ma proprio tutto era andato in malora, ma ce l’ha fatta. Record d’incassi, ma film di merda. Anche con l’apocalisse, il mondo non cambia mai. Ha sempre gusti del cazzo.
Zooey ha ricevuto la stessa lettera tre settimane fa. Il Primo Ministro la invita a comparire in tv per contribuire alla diffusione di un clima il più possibile ottimista e fiducioso nell’ottica del superamento di questa crisi globale. Si è alzata dal letto il giorno del suo compleanno, per passare alla poltrona. Mi ha fatto un regalo, ha detto. Un altro. Ancor più difficile da eguagliare. Il medico le ha imposto di ricominciare a mangiare la carne.
Ha rifiutato l’invito di Cameron, ma è stato necessario un certificato in carta legale. Altro che invito
Erica, d’altra parte, crede di aver trovato la cura per superare la pandemia. Si scopa il medico. Buon per lei.
E io? Nel vecchio mondo sarei stato famoso e fotografato. E, una volta sviscerato il mio passato anonimo, crocifisso dai media. Che ci fa uno come lui, accanto a lei? Oggi, invece, non interesso a nessuno. Poco male. Non esistere, ora, vuol dire cavarsela.
Su internet, nonostante la censura, continuano a essere diffusi foto e filmati. Alcuni sono della stessa Londra, ma è come se provenissero da un altro universo ben più movimentato. Qui si possono sentire cadere gli spilli.
Si fa irruzione. Si spara. Uomini mascherati portano fuori corpi avvolti nei teli e materassi sporchi si sangue.
Non va sprecata neanche una goccia.
Per ogni malattia esiste una naturale immunità. La troveranno. Prima dell’estate.
Estate è una parola che fa paura.

Jane non mangia più da tre giorni. Non ha una linea di febbre. Ieri Richard mi ha chiesto la doppietta, ma è andato via prima che potessi rispondergli. Mandano via anche il medico quando si presenta per le analisi. Ancora una volta e ci metteranno tutti in quarantena.
Lo so io e lo sa anche lui. È qui. Ce l’abbiamo in casa. E l’unica spiegazione è nel cibo che mangiamo. Dicono che l’aria non c’entri. Non è un virus di merda.
Restano solo due vie.
Fare una telefonata alla Croce Azzurra.
Oppure trovare una pistola. Per tutti e due. Devo solo stare attento che Richard non entri, per farci un favore, anche in camera nostra, magari nottetempo. Gli do ancora due giorni, poi la telefonata la faccio io. A Zooey non ho detto nulla.

La trovo sul divano a fare zapping, alternato a Twin Peaks. Lì c’è sua madre, che le somiglia. E suo padre, dietro la cinepresa di tre episodi.
E c’è quel cazzone di Cooper che parla solo di quanto sia buona la torta che servono lì, nel diner, mentre una ragazza è morta e nessuno ci capisce nulla. Con la sua faccia liscia e inespressiva. Mentre Bob, ora lo sappiamo, è nella sua testa. Come il prione.
Ormai, parliamo solo di fette di torta. Lo facciamo al contrario. E balliamo, come l’Uomo dei Sogni.
Le siedo accanto. Mette le gambe sulle mie. Calze rosse. Ha un buon profumo.
Fa notare che sono dimagrito, mentre lei è ingrassata. È colpa della carne, dice, in italiano. Spiccica qualcosa nella mia lingua solo quando vuole mentire. Il suo vocabolario si limita a ciò che riesce a estorcermi.
In periferia, intanto, preparano il campo militare: contenimento. È solo una precauzione, continuano a ripetere
Le massaggio i piedi. Per un momento me ne sto lì, a pensare a niente.

***

11 Marzo 2014

Calcio in noce. Ben bilanciato. Fabbricazione italiana. La bascula è brunita e incisa di motivi floreali. Sul fondo nero, spiccano due fagiani dorati in volo. Su di essi si riflette la luce ocra delle appliques.
Un buon sovrapposto, acquistato anni fa. Il vecchio, tra calibro 12, 20 e 28, ne possiede nove. Lo stronzo è seduto su una fortuna.
Ho sentito dire in paese che per pagarsi l’imbarco per due persone ne bastano cinque.
Mi chiede come me lo sento tra le mani. Se dà soddisfazione mentre lo brandeggio. Per un attimo la sua testa finisce in traiettoria. Sorride, la dentiera sporca di nicotina. Lo faccio anch’io.
La temperatura sale e il fucile è l’arma del domani. A patto di saperlo gestire. Le armerie, la maggior parte, almeno, sono state chiuse l’anno scorso, di questi tempi, dopo che alcune di esse vennero sfondate e depredate dalla cosiddetta autogestione. Libere armi per Libero Popolo. Quello inglese. Cameron la pensava diversamente.
Il resto l’ha fatto la cessazione delle importazioni. L’unico modo per avere un fucile è costruirselo, o rubarlo.
Le cartucce, per fortuna, sono un’altra storia. E il vecchio è ben fornito di tutto l’occorrente. Il suo studio è il paradiso del cacciatore.
Le teste dei cervi impagliate spiccano dagli stemmi, con gli occhi di vetro coperti da un velo di polvere. C’è odore del cuoio delle cartucciere e di tabacco di tante sere passate a fumare.
Può sfamare un esercito.
Ma ha una moglie malata e per lui un posto dove aspettare di crepare vale l’altro.
Ci ha fatto entrare perché… non lo sa nemmeno lui.
Si accende la pipa ritorta di legno grezzo e scuro.
Forse è vero. Forse gli uomini buoni esistono ancora. O sono solo più coglioni degli altri.

Ci siamo adattati su due brande, sistemate accanto alla libreria, sotto coperte di plaid. Ci sono due poltrone di pelle lacera e una vecchia tv portatile che è un miracolo se prende ancora.
I telefoni funzionano. Ma non c’è più nessuno da chiamare.
Anche internet resiste.
Twitter e Facebook, YouTube soprattutto, sono pandemici. Non è il caso di passarci del tempo. Sono finestre sul delirio generalizzato.
Quello che c’è la fuori, sul continente e qui, anche se in misura minore, lo conosciamo già.
Cameron ha riaperto una scuola a Liverpool. A Marzo. Difficile stare dietro agli anni scolastici, quando la maestra azzanna i suoi alunni.
Una bambina con uno zaino dei Simpsons è stata ridotta come una polpetta dai suoi amichetti che l’hanno presa a calci.
“She brought the yellows on her back! That ugly bitch!” ha urlato uno ragazzetto in tv. Gli altri gli hanno fatto il coro mostrando indice e medio.
Non so. Mi viene persino da ridere.
Mette su un video, sul suo smartphone. L’audio non è granché, ma la musica è perfetta. Adoro la sua ironia. O forse è il suo modo di dirmi che è con me, qualunque cosa abbia deciso di fare.
Stanotte la amo davvero.

Kendal, ora 29.000 abitanti. Nessun caso di contagio, a tutt’oggi. A questa latitudine non è tanto sorprendente. Ma sta salendo. Ha toccato Sheffield. Tra poco sarà a Manchester, forse è già lì. Hanno insabbiato la cosa.
Ho ancora quella melodia nella testa. Tiro un sospiro profondo. La notte sa di quiete. E la quiete mi ha sempre messo l’angoscia addosso, già da prima di tutto questo.
Ci sono i resti di un castello medievale del XII secolo. Posto suggestivo, per l’incontro. Si arriva a piedi, con prudenza. C’è il coprifuoco, dopo le venti.
Siamo in due, un uomo e una donna.
Costa cinque fucili, Beretta, più una pressa, borre in quantità, polvere da sparo, inneschi, involucri e pallettoni da 11/0. Tutti quelli che riesco a procurarmi.
La donna non deve essere toccata.
Costa un fucile in più e due cinturoni.
Meglio se si copre un po’, se si rende poco appetibile.
Da non crederci.
Non deve sembrare una donna.
Al limite, posso usare il fucile, i tre che mi restano. Mi dà il permesso e ridacchia un po’.
È l’ultimo viaggio anche per loro tre. Insieme ad altri quattro passeggeri. Indietro non si torna.
Mi chiamo Hell.
Il mio nome lo scombussola un po’. O forse è il tono in cui riesco a dirlo. Non parlo più, con le altre persone… E lui ha smesso di sorridere come uno stronzo.
Domando se ci sono altre donne, tra quei passeggeri. Non mi risponde.
Non contiamo un cazzo. Le motovedette non ci fermeranno, devo stare tranquillo.
Là dove siamo diretti dicono non ci sia rimasto più nulla. Neppure gli abitanti.
È su questo che facciamo affidamento. Non occorre altro.
Tranne convincere il vecchio.

***

15 Gennaio 2016

Fino a venti metri, nove pallettoni su nove, contenuti in una singola cartuccia, attraversano una lastra di ferro dello spessore di 1mm. Poi c’è quello che sta dietro. Di solito uno strato di legno d’abete. La penetrazione varia, a seconda della distanza e della durezza. Senza dimenticare il rischio di rimbalzo. Per chi viene colpito, coi pallettoni che danzano tra le ossa, facendo scempio della carne che c’è intorno. E per chi spara.
Specie sulle superfici gelate.
Da un certo punto di vista, il fucile è un’arma primitiva. E letale. Bisogna rispettarla
Berretto calato sulle orecchie.
Non è granché, come protezione.
Me la immagino per un istante su un divano, in un quadro antico, col vestito candido macchiato di sangue…
Sparo, dall’interno della tenda.
Lo scoppio, cui segue il nulla. Poi un ronzio che diventa un fischio.
Resto con gli occhi sgranati a osservare il tessuto sforacchiato che si contrae come respirasse a causa del forte vento. Ma è inutile. Buio, dentro più che fuori.
Dopo, torno a sentire. Ma è tutto molto lontano.
Qualcosa ha toccato la tenda. Improbabile si sia trattato di un animale. E gli animali non ridono. Solo le streghe lo fanno.
A quella distanza, qualunque cosa fosse, ora è morta.
Sto fermo ancora un po’. Trattengo il fiato, anche se è inutile e dannoso. O forse no, dato che sto iperventilando. Ho ancora la seconda canna, quella inferiore. Non oso ricaricare.
Tiro su la cerniera. Esco, insieme al fucile, più veloce che posso.
Non sento nulla.
Prendo la dinamo dalla tasca sinistra. Nell’altra, il mio coltello col manico che sporge dalla cerniera mezza chiusa.
In un pozzetto scavato nella neve, a una decina di passi dalla tenda, scorgo un fianco. Pelle scoperta.
Mi avvicino. È Carla.

Raggomitolata, giallo-livido, tumefatta in più punti attorno al torace e sulle gambe. Nuda. Ai piedi di un albero morto. In una fossa profonda una trentina di centimetri.
Con il lato sinistro del cranio sfaldato, grigiastro e appiccicoso, sotto una cascata di capelli scuri e lerci, a chiocche. Dissolto in poltiglia e schegge insieme all’orecchio. Ci sono brandelli di carne pendula.
Non è possibile. È tutto sbagliato.
Punto il fascio di luce per terra. Macchie scure, irregolari, in scia. E due paia di impronte che conducono al pozzetto. Sono i miei scarponi e dei piedi nudi. Queste sono profonde, circa il doppio rispetto alle mie orme.
Mi giro di scatto, perché lo sento ansimare. Vedo il suo ghigno isterico poco prima che mi si getti contro, abbrancandomi e percuotendomi la cassa toracica con le spalle e tutto il suo peso.
Non respirò più. La dinamo mi casca dalle mani. Lui, coi suoi capelli rossicci tagliati corti, la barbetta ispida e il volto rossastro, tra me e la mia mano destra, con la quale reggo il fucile. Il cacciatore.
Grida.
Mentre tento di riprendere fiato, la vista sfocata, mi sferra tre, quattro colpi alla testa e al volto.
Sento il calore e il sapore del sangue quando un dente mi si conficca all’interno della guancia
Poi, arriva il quinto colpo. Sul naso. Non vedo più la luce della dinamo. Non importa. A parte quello, non ci vedo comunque un cazzo. Solo che il sangue mi arriva dritto in gola. Mi soffoca. Sto per vomitare, ma tossisco soltanto.
Lascio il fucile.
Avverto il suo fiato greve. S’è fatto vicino per mordermi. Riesco a piazzare l’avambraccio sinistro tra la sua bocca e il mio viso. Ha addentato la manica e la strattona come a voler strappare il tessuto.
Mollo il fucile e smanaccio per prendere il pugnale dalla tasca.
Sono morto.
No, c’è ancora.
Miscela di olio lubrificante e benzina per non far ghiacciare la lama nel fodero.
Viene via veloce.
Avverto una fitta al braccio che lui continua a mordere scuotendo la testa. Il giaccone si sta lacerando. Ho freddo alla schiena e alle gambe.
Gli pianto il coltello tra le costole. All’altezza del petto.
Si irrigidisce di colpo.
Spingo ancora, fino all’elsa. Poi rigiro la lama.
S’è incastrata tra le ossa. La lascio lì.
Resto così. Con lui addosso. Respirare fa un male cane. E il buio lo vedo ancora confuso.
Almeno questo figlio di puttana mi mantiene caldo. Ma non durerà.

fine ottavo episodio

[credits: Chris Anthony per il quadro della donna sul divano]

Altre pagine QUI


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :