Daniela Andreis - La casa orfana - Lietocolle 2013, prefazione di Cristina Annino
Ci sono dei libri che si leggono alla svelta, presi dalla loro scorrevole leggerezza, e si sbaglia. Avviene anche con questo libro di Daniela Andreis, composto da poco più di una trentina di poesie. Ma tentare di farne una lettura superficiale, appagandosi di una intrinseca piacevolezza, anche musicale, è un errore. Di Andreis avevo già letto Aestella, (v. QUI), un libro singolare per ideazione e forma, forse un romanzo epistolare a senso unico, forse un diario poetico di mancanze, solitudini, silenzi, come avevo scritto allora. Qui la forma è distante da quell'interessante esperimento, ma mi viene da chiedermi se in qualche modo questo libro sia una prosecuzione di quello, o un suo differente sviluppo. Là il discorso, che sembrava quasi tra sé e sé, si rivolgeva a una persona a noi ignota e si svolgeva tutto all'interno della obbligata diacronia delle missive, con gli spazi vuoti tra un testo e l'altro che marcavano il silenzio ostinato, la non risposta, del destinatario, il silenzio dell'altro che costituiva il pretesto poetico per cesellare riflessioni sulla vita e le parole, inviate allo/alla sconosciuto/a "da questo posto che di giorno in giorno si fa sempre più siderale". Qui quel luogo astrale, una specie di iperuranio platonico, si concretizza in una casa, per quanto "orfana". Già in uno degli ultimi brani di Aestella Andreis scriveva: "aestella, ho perfino comperato una casa con le solite scuse per cui si compera una casa, nessuno sa che sarà il mio luogo da disertore". Da un non luogo all'altro, si potrebbe dire. Ed è perciò che giustamente Cristina Annino, nella prefazione, osserva come la casa sia "un prolungamento del proprio corpo", popolata di oggetti con i quali Andreis "inventa solo varie trasformazioni di sé stessa" e abitata "da tre inquilini: lei, il suo sentimento amoroso e la persona oggetto di ansia sentimentale" (che sia Aestella?). Forse, da questo punto di vista puramente metaforico, può sembrare naturale che la casa sia "orfana", o forse meglio apolide, come tutti i non luoghi. E mi fa piacere che Annino recuperi l'aggettivo "sentimentale", anche in questo libro come altrove restituito alla sua carica positiva. Casa immaginario contenitore ("la bambina non sa che la casa è un disegno"), intravato in una ricercata struttura ritmica, ovvero la forma scelta da "lei stessa [Andreis] che dialoga in solitudine con un trasferito interlocutore, per lo più assente" (Annino). Ecco perciò che ritorna il silenzioso e ingombrante protagonista di Aestella, con il quale Andreis ha ancora qualcosa in sospeso. Non ha un nome tranne forse che per l'autrice, non sappiamo nemmeno se sia un simbolo, è talvolta un "tu". Se la casa è "un luogo da disertore", Andreis, anche se forse rintanata in questo "luogo", non rinuncia a inviare missive oltre la trincea. (g.c.)
Confondimi con qualcosa che hai in casa:
una tazza, un mestolo forato, o con l'incarto del pane
che io possa avere una grazia comune,
essere presa in mano o piegata e riposta,
esser gesto quotidiano, ricordo di giochi, di prove di fuochi,
di crosta nel latte,
un odore di soglia che avverti già sulle scale
o la presa alla cieca, la sicurezza persino banale
di trovarmi nello stesso posto, in uno stipetto;
esserti persino cara
in qualche momento, quando tutto ti è estraneo
e persino l'albero cambia forma
la chioma notturna diventa cava, grotta, e di fosforo diventano gli
occhi, in fretta, in fretta;
fammi sillaba piena, sensata,
trattami col senso che dà
una riposante maneggevole realtà:
son fatta di un solo mistero,
le spalle controvento,
le impronte cardiache,
segnaletiche, in fila indiana,
là dove smarrisci la tua parola
meridiana.
Sperare di esserti un poco assomigliata,
come piano piano si somigliano tutti quelli di casa:
l'odore che prendono i vestiti nello stesso armadio,
il cuscino strapazzato, il più usato del divano,
o scucitura del cappotto preferito,
il bacio come l'un l'altro si è dato.
e ancora, ancora;
restano fuori
il mio nome
il tuo nome
e poche altre cose dicibili;
se un giorno non mi sentirai più
non cercare la chiave,
svita le viti, piega i chiodi,
prendi un'ascia:
di questo cassetto
non lasciare intatto un pezzo
Passo sotto casa tua con la solita taciturna poesia,
guardo tra le imposte del tuo piano se trafila una lucina
anche tenue, anche tenuta in mano,
poi, quando l'immagine si deforma, e la finestra si sposta e
prende tutta la parete,
e divento io stessa chiusa e buia e riflesso di lampione
e ombra del palazzo di fronte
me ne vado piano e mi volto indietro almeno
per cento silenzi e cento volte.
Memorabile è l'edera matta che balla sul muro
e il frusciare di nottola che fai per le stanze,
flessibile a tutto, vedente in ogni buio;
memorabile è la tua morbidezza
che racchiude il nocciolo duro e una mandorla amara
e la nostra casa immaginaria
che ha preso forma di podere, di cortile da gioco,
di chiesa consacrata alla nostra vita
o di due capitelli di campagna
con i fiori di gesso
e il salve al passante che mai neghiamo
la cui preghiera mesta mai dimentichiamo;
memorabile è la fine delle tue dita
che cercano la mia mano intimidita,
memorabile il tuo risveglio sotto il mio tetto
con la bocca tua ondina, bandiera bianca
da resa breve, a una sponda di gioia;
memorabile è la consolazione
di essere nati senza intenzione.
La bambina non sa che la casa è un disegno
un compito che svela se di notte si sieda sul tetto
se il cane sia alato
e il padre steso sul letto, di un desiderio ammalato
e la madre di spalle con un fagotto annodato;
non sa che è silenzio strappato
e che per sempre abiterà sul bordo tagliato
con ogni inciso di vita sbagliato
zigrinato lungo le cosce e il petto.
Abito nel pioppo,
mi piego al suo canto sommesso
appena da brezza di pianura è scosso,
fremo.
Questo è l'amore,
penso,
ma a volte è solo breve vento
al cospetto di un treno in movimento;
così aspetto di sfogliarmi
di diventare carta
di arrivare da te scritta, chiederti una terra
autunnale, vestita d'argento,
in una mano una bianca radice, nell'altra il nome della mia fermata.