Daniela Matronola recensisce Le monetine del Raphael su Alias de Il Manifesto.

Creato il 26 maggio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da krauspenhaarf su maggio 26, 2012

06/05/2012 ALIAS

Il rosso del sangue e del bordello. E poi tutti questi interni. Difficile trovare un vero esterno, riconoscibile come tale. Anche quando (Bacon) dipinge Soho e un’automobile, sembra di stare in uno studio. Così Franz Krauspenhaar (autore milanese di padre tedesco e lontane origini olandesi) nel suo Un viaggio con Francis Bacon (Zona, 2010), personal essay e in effetti vera guida alla lettura di Le monetine del Raphaël, appena edito da Gaffi nella collana Godot diretta da Andrea Carraro. Un romanzo dopotutto da camera, o da studio appunto: il pittore Fabio Bucchi, vorace e onnivoro escursionista di almeno cinque decenni italiani (dai ’60 al 2010), vi è relegato, morente, accudito da Angela, giovane allieva/infermiera/badante, e vi riattraversa la politica lo stragismo il socialismo con l’epopea della sua auge infame nel decennio Ottanta e la caduta dei suoi dèi di cartone subito sostituiti da dèi supplenti fin più sguaiati e arcigni. Ne diventa metafora efficace, sintesi dolente e sfrenata, il sesso delle orge, il potere esercitato come eros e dominazione, a emblema della storia del nostro dopoguerra che, dopo l’immediata innocenza creaturale, la più che decente, decorosa, volontà di rinascita della nazione, è esplosa in voracità famelica, in sporcizia politica da rivoltapastrani, in trasformismo che smettendo e indossando casacche ha fatto scorribande per l’intero arco costituzionale. Il mite padre, ex–repubblichino, si rifà una verginità comunista e sindacale in fabbrica, e lo stesso protagonista, missino incantato dalla facondia di Almirante, finisce socialista nelle frange collaterali della corte di Craxi, lui, pittore di genio, che pur d’emergere sottostà a invalse logiche clientelari. Dal buco di questa serratura (i buchi contano in questo romanzo), Bucchi pittore si ritrova testimone del sacco d’Italia che tuttora incendia la nostra Storia, replicando una coazione agente da millenni, però stavolta a opera degl’italiani divisi in gerarchi democristiani, avventori socialisti, stragisti senza volto, brigatisti senza anima, e la gente pilotata che idolatra la Dea Doxa. La pornografia, che riassume il volto di un potere e un’identità nazionale corrotti, non solo indica il sesso (giocato come parlato, anche telefonato) come strumento di conoscenza principe, come ben intuito da Pasolini, ma diventa esperienza storica ineludibile e vera, che Bucchi poi traduce in quadri enormi e violentissimi, ritratti potenti intessuti del ghigno baconiano: è Bacon il Maestro di Bucchi (condividono molto più che le sole iniziali) – FK ne fa uno studio attento nel saggio sopracitato, vicino a L’effroyable viande di Alain Milon, docente a Paris10, che sto traducendo. Era da Purple America di Moody che mi pare un romanzo non situasse al proprio cuore la cruciale corrispondenza tra la malattia in scala singolare nel corpo infestato di un personaggio e un male più grande, di cui l’altro diventa correlativo e epifania, per riassunto e sostituzione, che investe qui non il corpo di una centrale nucleare sgocciolante liquami tossici ma una nazione ulcerata ovunque che si sfa in siero umori e sangue. Il porpora violaceo di Moody, curiosamente reso come Rosso, qui fila proprio nel rosso vivo, pervasivo per Fabio Bucchi come lo è per Bacon in Person writing reflecting in the mirror, o lo era stato l’arancio, nel Trittico Figure per una Crocifissione (Eumenidi urlanti come coreute), quadro del ’43 – anno di nascita del protagonista di Monetine. Fabio Bucchi come Forrest Gump capita là dove accade la Storia: alla stazione di Bologna è testimone dell’attentato del 2 agosto’80, e, tormentato dagli occhi sgranati di terrore di una bimba poi coperti da un uomo che la consola, fa una serie di quadri del bus 37, rosso col tetto color crema, usato per il trasporto delle vittime nelle forsennate ore dopo. Due i punti cruciali del romanzo: intessuto di un lungo presente, è sostenuto da una scrittura che adombra il poeta che l’autore è (la raccolta EffeKappa ne è compagna di cordata, Zona 2011); in quest’epoca di romanzeria addomesticata non è un intrattenimento borghese, non è un libro domestico: inchioda allo scempio capillare su scala nazionale, riportato senza sconti da un testimone che vi è stato parte attiva, con una claustrofobia che spinge a cercare aria, a tornare fuori. Appunto: non ci sono esterni, non c’è fuga, non c’è aria, com’è chiaro se non ci si stordisce con comode fandonie, se senza lacrime o commozione, cui il libro baconianamente non indulge, si prende atto del disfacimento infame in cui lo stesso Bucchi resta a respirare e a pensarsi vivo. Bucchi è come un Milton senza ideali, salvo il puro spasmo fisico di chi deve attraversare per prendere: continua a dannarsi fino all’esaurimento della luce, solo la disgregazione cellulare lo spegne.


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