Daniele Ciprì, l’intervista: “La Buca, un film in vinile”

Creato il 01 ottobre 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

Sembra ieri quando, sulla Rai, apparve un oggetto misterioso come Cinico Tv. Un oggetto coraggioso, lontano da qualunque stile visto in tv, storie di grottesca umanità virate in un indimenticabile, impietoso bianco e nero. Qualcosa di possibile solo alla Rai di quei tempi. Erano i primi anni Novanta, e nel panorama televisivo, e poi cinematografico, apparvero Ciprì e Maresco. Oggi Daniele Ciprì è un apprezzato regista e direttore della fotografia, e ritorna al cinema con La buca, un altro atto coraggioso, un film fuori dai tempi che stiamo vivendo. Un film che è a colori, ma che Ciprì considera in bianco e nero, visto il cinema a cui si ispira. “Un film in vinile” l’ha definito. Una definizione che rende benissimo l’idea.

Che tempi erano e che Rai era quella in cui nasceva Cinico Tv?
C’era una grande rabbia, e una grande autosufficienza produttiva: abbiamo cercato di inventarci un linguaggio. Erano i primi anni Novanta, quelli di Guglielmi, Voglino, Ghezzi, un periodo in cui la Rai aveva un po’ più di coraggio a mandare qualcosa di anomalo. Noi avevamo iniziato prima in una tv privata di Palermo: facevamo un discorso più legato al cinema raccontando la Palermo delle bombe, di Falcone e Borsellino, e facendo sorridere. Non eravamo ben visti, ma è stato un periodo in cui c’era una grande forza. È la rabbia che ci ha fatto combattere e vincere, quando nel 1994 Cinico Tv è arrivato nel nazionale.

Come è nato quel bianco e nero così contrastato e impietoso?
Io ho sempre fatto una ricerca molto evocativa sul cinema, anche senza pensarci. Quel tipo di immagine ci ha riscattato: eravamo brutti sporchi e cattivi ma avevamo un’estetica cinematografica, era il riscatto del cinema. Un’inquadratura fissa che poteva essere qualsiasi parte del mondo. Quell’immagine non l’ho tradita, l’ho lasciata in memoria. Quell’immagine sarà nostra per sempre. Un’immagine di Cinico Tv la riconosci subito.

Ha visto il film di Maresco, Belluscone?
Non l’ho visto, ma sono contento dei suoi risultati e spero che vada bene in sala. È una storia che già precedentemente avevamo percorso. Berlusconi è sempre stato citato nelle nostre cose. In uno sketch nel 1990 abbiamo anticipato le sue elezioni politiche.

A proposito, per La buca avevate pensato a un passaggio a Venezia?
Non esserci è stata una mia scelta di partenza: i film dei festival sono film da festival, devi farli per quella direzione. Io ho fatto La buca con un’intenzione diversa. Ma lo feci vedere a Barbera, e anche a Muller, perché desideravo fare un evento, come se fossi un regista straniero. Ma non c’era spazio per altri eventi, c’erano troppi film. Non sarei andato comunque in concorso, diciamo che il film l’ho fatto vedere agli amici. Ai festival io sento molta agitazione: soprattutto per un esordio i festival sono negativi, c’è poca attenzione dalla stampa. Ormai i giornalisti oggi spesso vogliono apparire, sono diventati attori, spesso non aspettano altro che andare in programmi tv, dove dicono solo se un film è bello o brutto, senza riflettere. Ma come fai a giudicare un film dopo un minuto?

Anche se La buca è a colori, quel bianco e nero di Cinico Tv un po’ è rimasto. Come ha lavorato alla fotografia?
Desideravo fare un film “in vinile”, con il solco di un disco, qualcosa che si invecchia. Per me è un film in bianco e nero. Al di là della tecnica, è la concezione che conta. Ho lavorato in chimica, in pellicola, ho immaginato il film come una cosa abbastanza vecchia. Il colore che ho usato è quello di un film antico. Può essere anche a colori, ma è in bianco e nero. Il bianco e nero non deve essere una moda, non ha senso usarlo per una storia di oggi. Il tipo di approccio è sull’estetica che è funzionale al film. Se evoco un cinema alla Vincent Minnelli, Wilder, Lubitsch non posso non fare un film in bianco e nero. Così, lavorando in postproduzione, ho elaborato una cosa antica. Grazie alla color correction oggi si può fare. Se avessi lavorato in digitale l’effetto sui bianchi sarebbe venuto diverso, tipo Instagram. La pellicola invece ha una sua grana, che, impastandosi con un effetto del genere, ha un effetto come se avessi scelto l’obiettivo sbagliato.

Come ha intuito che Castellitto e Papaleo potessero essere una grande coppia comica?
Io ho un bellissimo ricordo di quando girai il documentario su Franco e Ciccio: Lucio Fulci fece i più bei film di Franco e Ciccio, perché capì qual era la coppia e li invertì, uno il comico e uno la spalla. Non è il caso di Rocco e Sergio: io gli attori non li scelgo, li incontro. Vedo e sento se hanno quel tipo di complicità e divertimento per interpretare un soggetto. Quello di Sergio Castellitto è un personaggio grottesco, quello di Rocco Papaleo è un personaggio vittima di un abuso, come quello di E’ stato il figlio. Quando vado a incontrarli vedo se sono complici e li scelgo. Faccio incontri, non provini. Per Sergio ho sempre provato ammirazione, ho amato il personaggio ne L’uomo delle stelle. Valeria Bruni Tedeschi era la prima scelta, ho visto altre persone, poi l’ho incontrata di nuovo a Parigi in un bar e ho capito che aveva l’eleganza e la luminosità della nostalgia che cercavo. Sono stati tre registi al mio servizio. E non mi hanno rotto le scatole, ma mi hanno dato sostegno, in questa storia folle come L’ultima follia di Mel Brooks.

Che si fa con due mostri di bravura simili? Li si dirige in modo preciso o si lasciano a briglia sciolta?
Se fai musica classica hai una bacchetta e dirigi. Se hai un attore, che è uno strumento, lui ti fa delle proposte. Sergio tende a regalarti tanto, e tu devi togliere, Rocco ha avuto una sua idea del personaggio. Un Papaleo così non lo abbiamo mai visto, un Castellitto così non lo vedevamo da tempo. Gli chiedevo “mi devi inventare un tic”, e lo faceva; “devi giocare con qualcosa”, e ha aggiunto una mazza da golf. È una complicità. Se Billy Wilder non avesse avuto Matthau e Lemmon, chi avrebbe potuto impersonare i personaggi de L’appartamento? In quel sorriso di Jack Lemmon c’era la rabbia. Oggi quei personaggi non esistono più. Se i miei personaggi sono riusciti lo deve decidere il pubblico. Credo che in un momento di crisi sia il pubblico più portato a valutarti, sia più puro. Il mio desiderio è fare film di genere, ma raccontando sempre l’uomo.

Far sorridere più che ridere è possibile oggi in Italia?
Andando in sala mi sono accorto che la gente guarda il film col sorriso: non ride, ma lo segue con allegria. È un film brillante, non comico. Dove non ti annoi mai, hai sempre delle sorprese: questo tipo di meccanismo oggi non c’è più nel cinema italiano, i film si basano su gente che sta male, che si lascia, cose molto noiose. Il tipo di meccanismo che mi interessava era questo, non volevo la battuta. Se non alcune come quella dell’alcol denaturato. Sfiderei chiunque ad andare in un bar e dire “mi dà un po’ di alcol denaturato?”. È stato Rocco a darmela, quando gli ho chiesto una battuta che avesse un nonsenso.

Tornando al suo lavoro di direttore della fotografia, come aveva lavorato a Vincere di Bellocchio?
Lavorare con Marco è un’evoluzione a trovare nuove soluzioni. Ti pone in crisi. Regista e direttore sono due persone che vivono insieme un film, si pongono domande continuamente. La nostra paura era di fare una fiction televisiva. Vedevamo i documentari su Mussolini, immagini “meravigliose” , potenti. Mi sono sfidato a rielaborare il bianco e nero nel colore, come se navigassi nel passato attraverso un’estetica noir. Quell’immagine ha funzionato. Ma è arrivata per una crisi, perché avevo paura di fare Vincere. Da quel giorno Bellocchio non si è più separato da me, mi chiama collega, amico. Vincere ci ha battezzati nella follia più che nella cinefilia. Nel dire cose come “questo te lo faccio alla Welles, questo alla Ford”…

E come sarà la fotografia de L’ultimo vampiro di Bellocchio?
È un film fatto in casa, con il gruppo dei ragazzi della scuola di Bobbio, è ambientato nel Seicento, ed è un lavoro abbastanza alto. Non so se lo vedremo a breve, perché il Maestro ne sta preparando un altro. Immagina che ci sia un’ambientazione da inquisizione, immagini dure, noir. Ha delle caratteristiche da film vecchio. Abbiamo girato in digitale e ci sono molte bellissime cose. Bobbio mi dava molti stimoli per costruire la storia: ci sono le carceri, e altre scenografie naturali che ti danno stimoli. La cosa più importante per un direttore della fotografia è avere un luogo. Se non hai un luogo monti solo le lampadine.

Di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net


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