Frammenti di Shoah che Daniele Santoro mette in versi, a partire da fatti, ricordi, documenti, come si evince da note e bibliografia. L'idea di fondo del libro è dunque questa, un libro di programma quindi, senza voler togliere nulla alla forte spinta etica di Daniele o forse alla necessità di ricostituire una memoria o una identità. L'affermazione di Adorno, secondo cui "scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie" è arcinota. Sappiamo peraltro che in seguito Adorno ci ripensò su, precisando che semmai era meglio affermare che "non ci si può più immaginare un’arte serena" e non credo che a tutti sia perfettamente chiaro il suo pieno significato. Sappiamo che più volte detta affermazione è stata comunque confutata dalla letteratura stessa. Sappiamo anche che la sopraffazione del dolore, il tentativo di dire l'indicibile, narrare l'inimmaginabile si è tradotta in difficoltà del dire (e forse di gettare uno sguardo nell'abisso), in un linguaggio spezzato e oscuro come quello che Primo Levi (pur amandolo) "rimproverava" a Paul Celan, quando diceva di "pensare all'oscurità della [sua] poetica come ad un pre-uccidersi, a un non- voler- essere, ad una fuga dal mondo", o ancora a "un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione". Dunque, si può parlare ancora di quella immane tragedia? Santoro, classe 1972, ha affrontato la questione. Si chiede il prefatore, Giuseppe Conte: ci si può documentare per scrivere versi? Lui si risponde di sì (e parla di sfida). Io invece non lo so, o almeno credo che non basti, altrimenti potremmo aspettarci da uno dei tanti liceali che ogni anno salgono sui treni della Memoria che li portano a visitare Auschwitz o Mauthausen, a parte una auspicabile nuova consapevolezza, qualcosa di più di un buon tema. Ovvero, c'è un nesso tra esperienza cognitiva e fatto artistico? Il filtro può essere meramente culturale? Fino a che punto la cognizione del dolore può essere mutuata prima di poterne trarre a buon titolo un oggetto poetico? Credo che il punto sia questo, o almeno uno dei punti. Cioè l'empatia dell'autore, il fare sua la tragedia, anzi di più, cercare di capire (e far capire al lettore) le ragioni di una personale scelta, da quale profondità essa provenga. Per capire cosa intendo forse potremmo rileggere cosa scrissi brevemente a proposito di "Lettera da Praga" di Francesco Marotta (v. QUI) E' proprio questa "lontananza", se così si può dire, che permette a Santoro di affrontare la Storia in maniera postmoderna: il linguaggio viene chiarificato, reso colloquiale, a tratti "modernizzato", l'indicibile viene "detto" (e gli eventi ricomposti) per frammenti, come una registrazione, l'autore rinuncia a una epica del dolore, tiene a bada - credo volutamente - sia l'elegia sia l'emotività lirica (tranne che in alcuni testi che preferisco, oltre alla secca ma dantesca La distribuzione del pane) ovvero quei tratti che più consentono quella carica affettiva e empatica a cui alludevo, quegli elementi di trasfigurazione del dato di realtà che coinvolgono e contaminano sia autore che lettore, ne mettono in moto la capacità di percepire quello che non sanno, nemmeno se lo hanno studiato. Eppure è proprio questa "freddezza" che alla fine di questo libro che si legge velocemente potrà lasciare il gelo evocativo di una tragedia su cui non sarà mai possibile dire l'ultima parola, scrivere l'ultima poesia.
ORDINI IMPARTITI ALL' INTERNATO KALMIN FURMAN
Regola prima. Me lo porti al muro
ovviamenre già nudo. La divisa
la sistemi da parte col berretto
(servirà per i prossimi arrivati).
Regola due. Lo tieni per l'orecchio
se per il braccio é inutile, se fa resistenza
insomma che non s’agiti, se sbaglio mira
poco mi importa, non faccio differenza.
LA DISTRIBUZIONE DEL PANE
divorato il suo pane
allora il figlio guardò il papà in cagnesco
(che se lo smollicava ancora piano piano
il suo) e gli si avventò contro
glielo strappò di mano e se lo ficcò in bocca
masticò feroce
feroce come l'animale, gli occhi scarni
e spalancati fissi su quel moribondo che
giaceva a terra.
finché non arrivò di fretta il capoblocco
e lo aiutò ad alzarsi, mollò uno scapaccione
al giovinetto, poi tutti e due se li portò a braccetto
là dove si può bene immaginare...
al campo non li ho visti più tornare.
IL SOLE DI MAUTHAUSEN
Sole che spacchi la pietraia
e bruci sulla fronte e accechi
il prigioniero nelle cave di granito,
soltanto per un attimo Pietà
del tuo grande splendore:
oscurati, fa' notte fonda, spegniti!
non una nuvola ti chiude, uno spiraglio
d'ombra miracolosa, un acquazzone
- che abbiamo l'ansia in bocca degli oceani
e dentro gli occhi il mare i fiumi i laghi
delle nostre terre o sole maledetto
maledetto sole e maledetto il giorno
il cielo senza nuvole, l'estate
e maledetta l'afa che feroce
strangola il prigioniero nella cava
BLOCCO DEI MATTI
chiusi tra quattro mura di baracca
saltavano sui letti tutto il giorno
andavano su e giù gridando
in lingue incomprensibili, gli spensierati.
stavano per i fatti loro, non davano fastidio
salvo le volte in cui noi si doveva entrare
portarli via di lì, rassicurarli
che avrebbero ripreso subito a volare
LE SELEZIONI
I
fatto l'appello, il medico del campo
seleziona, lo scriba prende nota sul registro
sanno oramai il destino che li aspetta
infatti a malincuore lasciano la fila
tremano messi in disparte guardano
noi che facciamo un passo avanti a
chiudere la riga
II
in piedi da quattr'ore, sull'attenti
(fummo svegliati all'alba) e adesso viene
il medico del campo, riposato il viso, la divisa
linda che umilia i nostri stracci.
visita ognuno, gli basta un colpo
d'occhio, non va per il sottile
- via tifo esantematico, foruncolosi
scabbia, malaria e febbre petecchiale
sfoltisce la baracca come nessun altro
destina a morte anche i convalescenti
in numero di 700, non fa distinzione
purché facciano «in fretta, in fretta
si tolgano di mezzo!»
III
«tremo perché ho paura» - rispose l'internato
e il lagerfuhrer lo invitò a calmarsi
se non voleva andare dritto al crematorio
(che intanto gli additava), il poveruomo
fraintese però il gesto, uscì dal rango.
l'interprete intervenne, disse «cosa fai?
torna al tuo posto!» e allora il comandante
«lascia invece che venga, è lui che si fa avanti
vuol dire che era questo il suo destino!»
IL PAESAGGIO
certo non basta la Crudeltà degli uomini
aggiungi l'ignominia del paesaggio: la calura
che spacca pure i sassi delle lacrime, la neve
le nere nuvolaglie, il puzzo tutto il giorno dei cadaveri
un fiore te lo stroncano al suo nascere
e un albero non ci sorprende per bellezza il volo
di un uccello altissimo sugli orizzonti
LA LIBERTÀ DELL'UOMO
straniero amico compagno di questa sciagura senza senso
è qui che si separano le nostre strade, addio.
Tu nella luce scegli, in luminoso viaggio e io qui nel buio,
ancora qui nel buio che brancolo per martoriate
insanguinate terre appiccicato a cosa poi nemmeno io lo so
se è istinto di sopravvivenza o solo per paura della morte
o per vigliaccheria di non sapere opporre estrema libertà
al carnefice, la libertà dell'uomo ch'è sì cara, amico,
la libertà dell'uomo ch'è sì cara.
di Te che non conosco nome, nazionalità so quanto basta
so la parola dello sguardo millenaria antica nella sofferenza
e so la breve intensa gioia, l'incanto che si prova se a rapirci,
se a liberarci dall'angoscia è giusto una misura di stupore,
una bellezza che dia senso, amico, come quella sera
che puntavamo al cielo gli occhi e ci sorprese
il pieno delle stelle immenso il firmamento