Dans Le Noir (prima parte)

Creato il 16 aprile 2013 da Thefreak @TheFreak_ITA

Scary.

Un murales di 20 metri composto da una parola di 5 lettere. Scary. Una scritta in Times New Roman su scala 1 su 5, un rosso e nero definiti, ogni lettera ben scandita. Nient’altro.

Ero sul fianco destro dell’auto, posto passeggero, spostai lo sguardo verso il finestrino e quella parola si scagliò contro la mia vista. Paul era alla guida, eravamo fermi in attesa che un gruppo di ragazzi attraversasse la strada. Alla nostra sinistra si apriva il Cargo, un posto molto frequentato a Londra, così come tutto il quartiere di Shoreditch, definito la parte hipster della metropoli.

Accade in ogni città. Un sobborgo cittadino cambia pelle, non è più un suburbio, un luogo abbandonato da Dio in cui i soli a prenderne visione sono coloro che vi abitano.

Accade che un posto marginale, ai confini della vita urbana che conta, subisca metamorfosi. Una sorta di colonizzazione attuata dai moderni artisti e intellettuali. Vi piantano i loro loft, i loro open space, tutta la geografia bohème di cui sono capaci.

Le strade trasformano la loro fisionomia, s’innesca una disposizione accurata di bistrot e cucine orientali, negozi vintage, locali dalla musica ricercata. Storie metropolitane e aneddoti esistenziali.

Ne consegue un gran vociare. C’è chi spreca parole per rivendicare la recente scoperta del quartiere, chi per denigrare la nuova scelta di svago, chi per rendersi partecipe di una conversazione potenzialmente interessante. L’alimentazione del dibattito, lo spreco di tempo. Un ottimo placebo alla noia.

Paul e io conosciamo a Shoreditch, come del resto la maggior parte dei trentenni londinesi e non intricati tra lavoro, crisi virali, carenze d’affetto.

Tuttavia non abbiamo mai partecipato ad alcun tipo di convivio verbale sull’argomento.

Questione di tempo, o forse solo di età che arranca. Di mancato interesse.

I nostri rimedi alla noia sono situati altrove, come i nostri pretesti per attaccare conversazione.

Tuttavia quel venerdì sera noi eravamo di passaggio.

Tuttavia quella scritta, Scary, mi colse di sorpresa.

Feci segno a Paul. << Guarda lì>>.

Lui si voltò verso il mio finestrino. Non sembrava particolarmente colpito. Mi guardò sornione e ritornò  con lo sguardo sull’ abitacolo.

Esordì dicendo: << Lo sai che quella roba è lì da almeno cinque anni?>> .

Con la sua voce asciutta ed elegante mi aveva appena detto: “sei il solito distratto, Carlo”. Non aggiunse altro.

Non aggiunsi altro. Aveva ragione.

Ritornando alla nostra serata, dovevamo raggiungere alcuni amici per cena nella zona tra Finsbury e Farrington.

Cherkwell Green, n.30-31. Il posto era il Dans Le Noir, un ristorante per non vedenti. Un posto utile per la categoria protetta, ma non era il nostro caso.

A me interessava il cibo. Servivano un ottimo salmone marinato al pepe rosa con tortino di patate viola e un sashimi di tonno in crosta di sesamo e chiodi di garofano. In fondo non ero così distratto.

E tuttavia il resto non aveva molta importanza. Almeno non per me.

Paul invece ne esaltava l’ambiente, il design, la frequentazione, oltre al menù.

Io trovavo il tutto molto razzista. Un classico esempio di privilegiati che aprono un locale figo, ad uso e consumo di altri privilegiati, sfruttando un handicap per farci sopra un business, camuffandolo con la ricerca di nuove emozioni sensoriali e culinarie.

Una cosa da violazione dei diritti umani, ma il posto aveva successo, quindi la cosa non sembrava turbare nessuno.

Io mi limitavo ad accodarmi a quella prova di indifferenza, soprattutto dopo 10 ore dietro la scrivania e una fame che incalzava pesantemente.

Era il cibo che m’interessava, per l’appunto.

Paul parcheggiò l’auto in Britton Street, a pochi metri di distanza dal luogo dell’appuntamento.

Mark, Cecilia e Rosemary aspettavano davanti all’uscio. Erano le otto pm, eravamo quasi out of time per la cena. In Italia, a quell’ora, servivano lo spritz.

Dopo qualche minuto speso in saluti stanchi ma sinceri, entrammo dentro.

Ci accolsero due camerieri con la maschera a raggi x per darci il benvenuto e condurci verso il nostro tavolo. La luce arrancava, il brusio di voci provenienti dai tavoli si mescolava alla musica ambient di sottofondo.

Io mi guardavo intorno, nel tentativo di capire chi vi fosse quella sera. Una curiosità altrettanto razzista la mia, ma la noia spesso gioca un ruolo cruciale, se mischiata al senso di fame.

Posai il mio sguardo su alcuni tavoli, avevo difficoltà a distinguere i volti.

Nel pacchetto “ricreativo” del Dans le Noir era contemplato il consumo della cena con una benda sugli occhi. Cenare bendati per stimolare gli altri sensi.

Ero circondato da persone che non disdegnavano il supplemento sensoriale. Si concedevano di buon grado di tenere la benda per testare l’olfatto, il gusto, l’udito.

La gente va matta per questo genere di cose. Ricordo che un tizio una sera  giustificò l’uso della benda alludendo a una sorta di solidarietà nei confronti dei ciechi. “Un modo per farli sentire meno diversi”, fu la sua risposta.

Ricordo che non provai a dibattere su quanto tutto ciò mi contrariasse. Una pratica di marketing supportata da un alto senso di pari opportunità, roba da servizi sociali e chiusura immediata del ristorante.

Mi limitai a esprimere il mio rifiuto della benda, ma tagliai corto. Non volevo rovinarmi la cena inoltrandomi in una pesante discussione sull’ennesima prova di razzismo involontario.

In fondo non potevano costringermi a giocare per tre ore al buon cieco dell’East London. Pagavo 75 pound per un salmone marinato. Era già abbastanza.

Il tavolo accanto al nostro era occupato da 8 persone. 4 ragazzi e 4 ragazze. Alcuni di loro portavano la benda. Non sembravano imbarazzati, né particolarmente eccitati. Come se fosse qualcosa di normale, come se avessero già provato a cenare senza l’ausilio degli occhi.

Sette ragazzi su otto. La ragazza che avevo di fronte non aveva la benda. Eravamo in penombra e la visuale non era nitida.

Notai la lunghezza dei capelli, il movimento ondulato della loro estremità, la maglia nera con la scollatura verticale, una catenina sottile che le scendeva lungo il collo. La mancanza di luce m’impediva di definire i suoi tratti del viso. Ritornava al mio sguardo solo la forma dell’ovale, il contorno delle labbra.

Non portava la benda, ma non riuscivo a scrutarne lo sguardo.

Era rigida nella sua postura. Le spalle ferme, i suoi movimenti mancavano di scioltezza.

“È cieca”, fu la prima cosa che mi venne in mente.

E quel pensiero continuò a permutarmi in testa.

Era l’unica che non portava la benda, l’unica che non dimenava le mani durante la conversazione, restava fredda rispetto al brusio intorno, tutta la sua gestualità aveva qualcosa di meccanico.

Altri pensieri mi colsero. La solidarietà dei suoi amici, ad esempio. Solidarietà  nell’indossare quel velo sugli occhi per non farla sentire estranea, per non rimarcare il suo handicap, per metterla a suo agio. Forse erano stati proprio loro a scegliere quel posto per cena, così come magari era accaduto altre volte.

Tutto mi tornava così naturale fissare tutti quei dettagli che catalizzavano la mia attenzione, andando a smorzare il senso di fame e alienando le chiacchiere di Paul e gli altri, impegnati nella scelta del cibo.

Mi limitai a comunicare la scelta del mio salmone, aderii a spartire un antipasto, delegai la scelta del vino.

Ero completamente coinvolto nelle dinamiche del tavolo di fronte.

In realtà la mia curiosità si era dispiegata nella contemplazione di quella ragazza.

Nel tentativo di capire se avessi ragione sulla sua reale condizione.

Mi stavo interessando a lei.

Mi sentivo dentro una posizione privilegiata. Potevo guardarla, in quella penombra, senza correre il rischio di essere considerato invadente, o peggio un guardone insistente.

Ero intrigato da lei.

Il mio alibi ruotava intorno al dubbio circa la sua cecità.

Mi sforzavo di cogliere particolari fisici che mi sfuggivano, cercavo di capire la sua lingua, se fosse inglese o straniera, ma era difficile capirlo, in quel brusio di chiacchiere e rumori.

Paul e Rosemary mi fecero notare quanto il mio sguardo stesse diventando insistente.

Io glissai con una battuta e mi trovai costretto a partecipare alla conversazione, quindi assaggiare il salmone, spendere qualche parola sugli argomenti che passavano in rassegna.

Quindi ritornai di nuovo a guardare quella ragazza forse cieca, forse solo annoiata, forse libera come me da vestizioni a tema, da sciocchezze teatrali di un ristorante qualsiasi nella East London.

Ora la vedevo piegarsi verso il suo piatto, notavo la cura chirurgica con cui tagliava qualcosa molto simile ad un tortino di sfoglia, ma non ne avevo la certezza. Mangiava, piena della sua compostezza, sembrava assorta, anche se muoveva il capo in direzione dei suoi vicini di posto, forse per ascoltare cosa avessero da dire, quale storia stessero raccontando.

Loro erano bendati, a stento riuscivano a mangiare e parlare insieme, tentando forse di trattenere ilarità e di abdicare alla benda e comportarsi da persone normali, ma non lo avrebbero mai fatto, pensai. Ormai erano nel gioco.

E lei restava li, come se nulla potesse toccarla, spostandosi ogni tanto un ciuffo che le cadeva sulla scapola e che le dava fastidio. Lo portava dietro le spalle, con un gesto netto, senza andare a ricercare una grazia comportamentale o una femminilità ostinata.

Un giro di dita che andava a tagliare un pezzo d’aria per spostare un piccolo fascio di capelli.

Erano piccoli dettagli che non mi lasciavano indifferente, se non altro quella sera.

Continuavo a dire a me stesso se la trovassi bella o particolarmente affascinante. Non avevo tutti gli elementi per concedermi affermazioni così nette.

E non sono mai stato un tipo da sentimentalismi.

Era chiaro che non mi fosse indifferente. Mi piaceva, anche se non capivo la portata del suo magnetismo, cosa mi piacesse realmente. Era un mantra visivo, e lo ripetevo spesso nella mia mente, per evitare che un congenito cinismo potesse rovinare tutto.

Forse mi piaceva la facilità con cui potevo osservare una persona senza che lei se ne potesse rendere conto. Abbattere quel senso di pudore che spesso inibisce comportamenti e azioni nella loro spontaneità, nel loro corso istintivo.

La guardavo senza decenza, con il solo fine di guardarla, di coglierne ogni informazione, di abituarmi alla sua figura, di abituare i miei occhi a quel benessere.

Perché mi muovevo bene nella sua osservazione, ogni nuovo sguardo aumentava il mio stato, accresceva la voglia di concedermi un’ulteriore occhiata, a volte sorniona, a volte più spinta. Priva di censure.

Non era voyerismo. Era benessere. Si, c’era una sorta di eccitazione, unita alla curiosità. Erano tutte queste cose, ma non riuscivo a distinguere quale fosse il moto portante.

Era assenza di paura. Not scary but… e mi ritornò in mente il murales.

Quel ricordo mi fece sorridere.

Esente da paura. Pieno solo dei miei occhi e dal loro raggio d’azione.

Quel sorriso durò poco, così come la sensazione di benessere e l’abbattimento di ogni genere di spudoratezza.

Dal tavolo accanto si alzò uno dei ragazzi e si diresse verso il nostro di tavolo.

Si fermò davanti a noi e fissò con aria di sdegno.

<< Ehi you…Florence asks you to stop staring…Please, stop it now. She’s annoyed.

Smettila di guardarla, disse rivolto verso di me.

<<Who is Florence, guy…  Chi è Florence?>>, replicai.

Il tizio indicò lei, naturalmente.

Rimasi come in apnea, ma finsi tranquillità.

<< Sorry… I don’t think she could see me…I thought she was..

I know what you think..

<<So…>>

<< Lei ti sente, anche se non ti vede, ma ti ha sentito… forse ha percepito il tuo odore. I suoi sensi sono amplificati. E tu sei un idiota, amico.>>

Restai in silenzio, abbassai la testa.

<< Stop it now, ok?>> Riprese lui.

<< Ok…>>

Accennai un sorriso, non badando subito al silenzio disarmante dei miei commensali.

Paul mi diede un pugno sulla coscia da sotto il tavolo, che significava “Hai finito di comportarti come un idiota?”.

Accusai il colpo e ingoiai il mio imbarazzo, ma continuai a fingere un leggero menefreghismo, guardai il mio salmone e ripresi a mangiarlo.

La penombra che faceva da scudo al mio sguardo mutò in un buio scomodo.

Un muro nero che non osai più prevaricare.

“Di cosa stavamo parlando” fu il mio esordio migliore per rompere l’impaccio verbale in cui avevo trascinato Paul e gli altri. Cecilia colse il mio tentativo di ripristino della normalità e non indugiò a raccontarci frivolezze sulla sua giornata lavorativa con annesso sfogo di odio verso il capo.

Ridemmo tutti di gusto, ma era evidente quanto fosse falsa quella risata, ma provvidenziale.

Da li a poco ci dimenticammo della mia gaffe, del tavolo accanto, ci isolammo dal contesto come se non fossimo in un luogo pubblico, ma piuttosto sul divano del salotto di Mark, a discutere in modo sciatto e sconnesso di massimi sistemi e del disvalore di certe birre da supermarket.

Mi dimenticai di Florence (ora conoscevo il suo nome), come se non l’avessi mai conosciuta, come se il mio occhio non l’avesse mai vivisezionata. Come se fosse un rigurgito della memoria, un personaggio di un romanzo letto anni prima di cui ormai ignoravo la storia. Per pochi minuti dimenticai anche la conformazione della ragazza, o quello che ero riuscito a capirne.

Ripristinato il tenore della serata, mi alzai dal tavolo. Avevo bisogno di prendere aria. E volevo fumare. Tutta quella penombra mi stava provocando un senso di soffocamento. Avevo bisogno di uscire per percepire di nuovo la luce.

Sgusciai dal locale. Fuori c’era gente che aspettava di entrare. Mi allontanai dall’uscio per poggiarmi al muro accanto.

Prima di prendere il pacchetto di Winston dalla tasca della giacca, mi fermai. Naturalmente pensai a Florence, alla pessima figura, alla mia ostentata sicurezza.

Sono un’idiota, pensai.

Pensai al peso dello strascico di vite relazionali confuse. Di paure sommate e represse. Paura di guardare qualcuno che possa intercettare il tuo sguardo e magari montarci sopra un concentrato di fastidio, pregiudizio, mancato interesse.

Quindi le persone non si guardano, impiegano 5 secondi a scambiarsi gli occhi per poi calare la testa e fregarsene. Non si riconoscono, non tentano di capire chi hanno di fronte. Glissano e girano il culo. Not care. Giocano paura, imbarazzo, inadeguatezza, forse. Che a furia di chiedertelo, a furia di ripetertelo, ci credi. Paura, imbarazzo, inadeguatezza diventano parte di te. Insieme al cinismo.

 In fondo è quello che accade a persone come me, concentrate tutto il giorno ad evitare che qualcosa di proprio possa trapelare fuori. Tipo sembrare stupidi o troppo vulnerabili. La sicurezza va ricercata in un paio di cocktail per rilassare umori e quindi tentare l’approccio efficace, con il tuo alibi stretto nella mano destra mentre il ghiaccio va a sciogliersi. Rilassato.

So sad, so frustrating.

Il mio alibi di stasera è stato un handicap. “She’s blind”, mi sono detto.

Posso fare quello che voglio, pensai. Lei non saprà mai che un tizio la sta fissando per ore, non saprà mai come è fatto, che lineamenti ha, se il suo piglio idiota è trapelato, se le sue cesure mentali sono ad appannaggio del suo sguardo, se appare interessante o particolarmente sveglio.

Florence non mi poteva vedere, eppure aveva visto tutto.

Pezzo di idio…

Mi fermai. Girai lo sguardo e mi resi conto che lei era poco distante da me. Appoggiata al muro. Mi stava fissando.

<<It’s fun, isn’t it?>>

Restai bloccato, non riuscivo a muovere le labbra, lei mi continuava a fissare mentre accennava un sorriso.

<<Hi, I’m Florence and I’m not blind. And I can see you>>.

Sorrise di nuovo. Un sorriso più ampio, mischiato ad una leggera risata.

<<I’m sorry…>> provai a balbettare, abbassando la testa. Le mani iniziarono a sudare. Non sapevo come muovermi, cosa dirle.

<< Ok>> esordì lei, << potresti iniziare a dirmi il tuo nome..>>

<< Carlo… nice to meet you..>>

<< Nice to see you… replicò lei, questa volta ridendo di gusto.

Poi riprese.

<< Why you are not so sure, now?>>

<< Because…>> Ma lei mi fermò, prima che io potessi dire qualcosa di sensato o  riparatorio o che potesse sanare tutto quello che era accaduto prima.

<<Credo che sia utile cenare al buio. La luce ti espone troppo, a volte.>>

E aggiunse:

<<Quando mi sono resa conto che mi stavi guardando in quel modo, ho capito subito che avevi travisato. Ho capito che non saresti mai stato così libero di fronte a una persona che poteva intercettare il tuo sguardo e fraintenderlo, restarne infastidita, magari. All’inizio ero un po’ imbarazzata. Forse non siamo abituati all’assenza di filtro. Specie quando approcciamo con gli estranei, non trovi?>>

Si fermò per pochi secondi, spostò lo sguardo verso la strada di fronte. Poi si voltò di nuovo verso di me, mi sorrise ancora e riprese:

<<Poi mi sono abituata. Ho voluto vedere fino a che punto potessi arrivare. E ho capito che tu mi avevi preso per cieca. Altrimenti avresti smesso subito, vero? Mi sono incuriosita però, il tuo modo di guardarmi mi ha intrigata.

Ho voluto giocare. Ho detto a Rick di avvicinarsi e di ammonirti per capire come avresti reagito.

Mi sento un po’ in colpa. Non si scherza su questo genere di cose>>

Un’altra pausa. Continuava a fissarmi, in modo delicato ma deciso. Mi sorrise.

<<Ma ho avuto ragione. Hai smesso appena Rick ti ha ripreso.

Eppure ti ha detto che non vedevo. Gli hai creduto subito e hai smesso. Credi forse che mi fosse arrivato il tuo odore o che avessi poteri speciali?

Il tuo odore mi giunge adesso, ora che mi sei vicino.

Odori di profumo da 50 pounds e odore di tabacco.

Ti posso chiedere una sigaretta?>>

E di nuovo il suo sorriso.

To be continued…..

di Vittoria Favaronall rights reserved

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