Dante Maffìa o del participio presente.

Creato il 27 agosto 2012 da Emilia48

Nel leggere l’Opera di Maffìa, volendo avere una visione d’insieme e iniziando dal principio, si prova innanzitutto sgomento.  E’ uno sgomento felice, perché  ci si affonda immediatamente come in uno di quei piumoni soffici e rigonfi che a premerli con la mano le si gonfiano subito tutt’attorno in uno sbuffo e la mano non la vedi più. Poi però t’accorgi che quella morbidezza in realtà ha dell’inquietante, perché ricorda vagamente le sabbie mobili.

Questa consistenza semisolida è solo la superficie, perché sotto tutta l’Opera di Maffìa c’è la roccia. Scrivo Opera, con la O maiuscola, perché da Il leone non mangia all’ancora in fieri Poema totale, Maffìa ha scritto un’unica e sola opera che si articola in prologo, parodo, episodi, stasimi e esodo, secondo insomma una struttura ben solida e antica che si rinnova continuamente e si delinea sempre di più come una struttura che fonde l’azione drammatica col poema allegorico. 

La prima cosa che mi ha colpito è stato l’uso frequente del termine “lievito”, che ho notato spesso e me ne sono chiesta il perché. Leggendo tuttavia pur in modo disorganico, come mi piace fare, e spesso iniziando dalla fine, m’è parso che questo termine così spesso affiorante potesse avere valore di sigillo o sfraghis. E allora ho capito che Maffìa scrive come il lievito fa crescere l’impasto, come lo fa fermentare, perché mi pare che tutto quello che ha fatto e fa sia non una serie di opere in versi e prosa, ma un’unica opera iniziata molto tempo fa e che si gonfia e, appunto, lievita, crescendo a dismisura a occupare ogni angolo e ogni mezzo espressivo,  soffice fino a inglobare tutto quello che lo circonda perché fermenti e maturi e sappia di quell’odore un po’ dolce e un po’ acido prima della cottura. La seconda cosa che mi ha colpito – a parte tutte le cose belle e dotte e profonde che hanno già scritto i suoi critici e prefatori e che diamo per già note e date – è questo ghigno irridente di fondo, che a volte finisce in singhiozzo a volte in riso a volte in sogno. Che mi è piaciuto cogliere nella foto che ho scelto.  E in questa sofficità lievitante che nasconde un continente roccioso sommerso,  ci sono dentro tutti i secoli che si porta addosso, i picari e gli aedi, Bukowski e Plotino e i poeti morti suoi amici e la Calabria e la Grecia e Roma e l’America e  insomma…. questo io lievitante e lievitato che, come dice il suo nome, gerundio del verbo dare, si rovescia in una piena elegantissima e travolgente – a volte anche pericolosa – che travolge ma non esce dagli argini. Quasi un ossimoro. Questo gerundio è talmente oceanico che da io s’è fatto noi e voi e anzi ha rotto ogni argine d’individualità tanto da non poter più distinguere quella che è una biografia poetica registrata quasi ossessivamente in ogni sua atomizzata minuzia, dalla storia di un novello Everyman che, come nella morality play dell’Anonimo inglese, è allegoria dell’umanità tutta nel suo cammino che alla fine, ha da tirar le somme delle azioni. Ma non inganni questa dissipatio del Sé, perché questa pasta lievitante che si effonde nello spazio e nel tempo, sì, con plotiniana effusione, si solidifica poi sempre attorno al nucleo. Quell’Io agente e dante. (C)2012 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA                                  *************************************** SCORCI DALLE FESSURE da La strada sconnessa, Passigli 2011 1 Potrei, a mio piacere, girarmi attorno, ma mi chiedo a che vale, a che vale rivedere le azioni compiute e incompiute, le speranze e le cadute. In fondo di me resta, se resta, una briciola poggiata in una tazza che appena lavata si perderà nel lavandino. E poi…chi mi ha conosciuto sa che avrei potuto fare altro e altro ancora: la prospettiva da cui guardavamo era sempre falsa e poco illuminata. 2 Se io sono l’albero fiorito c’è qualcuno che è terra e sangue, altri che sono muffa e cenere. Ma quella luce diffusa da dove sarà venuta la caparbia avventurosa. 3 Ho trovato la fiamma oscura e tenera della parola, era nascosta nell’effimero d’un ricordo, e in parte, sopra il piano polveroso d’un vecchio armadio in cantina. Avrei dovuto prendere a volo la rivelazione perfetta del gelo e del calore, ma ero così assonnato che mi rimisi a letto. 4 Fare paragoni e inventare metafore sembra essere l’esercizio da realizzare dai poeti, i nullafacenti. Ma tutto si arena su un vecchio carrarmato abbandonato alla periferia del paese. 6 E non continuate a domandarmi chi sono. Possibile che pensiate che io sia stato una lunga linea retta che va da questo punto a quello? Se non ci fossero stati i mille crocevia e le salite e le discese, forse…, invece montagne russe e tempeste sono fiorite per ammaliarmi e stringermi a me stesso. E la lontananza si è fatta spessore d’un quotidiano rimuginare di povere mete tese al pane e al conforto. Non mi ero reso conto d’essere morto da secoli e di errare con un permesso con la scadenza stampigliata a lettere cubitali perfino sulla fronte delle mie bambine. (C) by Dante Maffìa 2011 RIPRODUZIONE RISERVATA

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