Dark Shadows: Gruppo di Famiglia in un (Gotico) Interno

Creato il 21 maggio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il maggio 21, 2012 | CINEMA | Autore: Andrea Lupo

Il mondo di Tim Burton è tutto racchiuso in un cimitero di plastilina, avvolto dai rami a spirale di una foresta gentile da un lato e dal candore malato delle siepi ordinate dall’altro. Confina con quella regione obliqua abitata da freak inconsapevoli la cui diversità è minacciata da un’omologante umanità e lambisce in egual misura i territori della morte, dell’amore e delle nevrosi irrisolte. È un mondo dalle prospettive sghembe in cui ciascuno può riconoscere il proprio mostro per poi scegliere di fuggirlo o di allevarlo amorevolmente. Autentico universo dotato di propria autonomia in cui le forme lambiccate, i colori pastello e le architetture color violetto adombrano ma non nascondono un cuore grondante sangue e sentimento. È questo il Luna-Dark in cui ogni cinefilo in contatto con le proprie tenebre vorrebbe sempre vivere, lo spazio circense che l’artista di Burbank da quasi trent’anni allestisce per il nostro (suo) piacere, reinventando costantemente i confini di un immaginario che ormai è cifra stilistica a sé stante (l’aggettivo burtoniano, il Leone d’oro alla carriera non sono che i segni di questa oggettivazione della sua autorialità).

Fantasmi al succo di scarafaggio che danzano con alieni dalla testa ipertrofica in un coloratissimo sabba corretto all’acido il cui unico biglietto d’accesso è dato da una sana ed eccentrica diversità; sono solo alcuni dell’oltre dozzina di viaggi cinematografici che hanno ri-disegnato la fiaba moderna e segnato irrimediabilmente il cinema fantastico (e non). E poco importa se tra l’essere sinceramente burtoniano (Beetlejuice, Nightmare Before Christmas, Edward Scissorhands) e adagiarsi in eleganti burtonismi (La fabbrica di cioccolato, La sposa cadavere, Sweeney Todd) il nostro ha corso anche il pericolo di perdersi in una Wonderland che non gli apparteneva. Al geniale ex animatore della Disney possiamo perdonare qualsiasi peccato veniale, a maggior ragione dopo che il suo testamento artistico e spirituale (Big Fish) è stato già donato ai nostri cuori e ai nostri occhi.

Sarà per questo che oggi Burton può permettersi finalmente di scombinare le carte del suo stesso universo, divertendosi ad ibridare i generi (commedia, favola gotica, soap-opera familiare), contaminando i ritmi della narrazione e concedendosi il lusso di scontentare tutti quelli che lo aspettano al varco con un nuovo “Sleepy Hollow”. Dark Shadows, quindicesimo salto nelle tenebre-pop, è forse l’opera più personale dell’era post Big Fish (se così si può dire), la meno ruffiana (dopo la mezza marchetta di Alice) e di sicuro la più caotica nel suo inseguire un equilibrio che (fortunatamente) non c’è. Come già nel sottovalutato (all’epoca però) Mars Attacks! anche qui Burton, incurante di mode e richiami più o meno noti al pubblico, dà corpo alle sue ossessioni impaginando non tanto le figurine aliene degli anni ’60 quanto quelle di una delle sue soap preferite. Si serve del gotico certamente (il prologo è puro Sleepy Hollow) ma lo dissacra immediatamente dopo immergendo la sua storia del dongiovanni “vampirizzato e abbandonato” (da una strega s’intende) nei colorati, stilosi e psichedelici anni ’70 (mentre la serie della ABC era ambientata nei ’60).

La frizione fra le ossequiose maniere del nobile Barnabas Collins e gli usi o le diavolerie dei favolosi seventies (lampade lava, bambole troll e via delirando) regalano al film momenti di sincera ilarità come la seduta (al sangue) con pacifici hippies strafumati o l’incontro – nientemeno – che con Alice Cooper o, meglio, la signora Cooper («È la donna più brutta che abbia mai visto»). La famiglia Collins poi non è da meno allo stralunato Nosferatu da cui discende e vanta più di una somiglianza con quella più folle e grottesca dell’irripetibile Beetlejuice. E se qualche figurina poco abbozzata (lo zio, l’istitutrice, il bimbo depresso) è imputabile probabilmente all’impossibilità di approfondire caratteri di derivazione seriale, è vero anche che questo non scompone più di tanto l’efficace affresco del bizzarro interno disfunzionale dove emergono con una certa forza le figure della solida matriarca (Michelle Pfeiffer, regale come sempre) e quella dell’adolescente in piena ribellione (la sempre più affermata Chloë Moretz), senza dimenticare la buffa psichiatra impersonata con spiritosa adesione dall’onnipresente Helena Bonham Carter.

Burton si diverte a muovere questi pupazzi di carne infischiandosene qua e là delle inverosimiglianze (come la figlia-licantropo) e assai più interessato ad inseguire gli inediti meccanismi narrativi che il ricco piatto gli offre. Può così negare al suo stesso lungometraggio le “solite” aperture fantastiche (si pensi agli spiazzanti titoli di testa, dopo il gotico prologo, che accompagnano la corsa del treno con le note di Nights in White Satin dei Moody Blues), assecondare le cadenze televisive della narrazione con una regia più pacata e meno virtuosistica e perfino sacrificare il tipico sinfonismo di Danny Elfman in favore di una collection musical-emotiva che punta dritta al cuore dei nostalgici (Killers, Carpenters, T-Rex, Barry White). Burton che nega Burton allora? Non proprio e la risposta sta tutta nel vero freak protagonista della pellicola la strega Angelique Bouchard, una platinata e magnetica Eva Green, inedito ingresso nel circo Burton, capace con uno sguardo di calamitare l’attenzione di tutti, soprammobili compresi.

Se il cuore del narrare burtoniano è dato sempre dalla disperata dissonanza tra il diverso e il mondo circostante va detto allora che non è al pallido vampiro di Johnny Depp o al suo frustrato sogno di amore ultraterreno che bisogna rivolgersi per ritrovarne qualche eco, quanto alla dimensione psicotica della sua diabolica ed arrivista controparte femminile. Lei è la sguattera sedotta e abbandonata, la strega per ossessione che maledice il frivolo nobilastro reo di averla ingannata sull’amore e lo ripaga poi con la dannazione della non-morte, speculare alla sua sottaciuta dannazione, l’incapacità di provare sentimento. Adopera le arti magiche per invertire le sue stesse sorti economiche e cerca di colmare la cosmica assenza di emozioni inseguendo il sogno di un’avida espropriazione economica ai danni della cittadina ittica di Collinwood e, naturalmente, dell’omonima famiglia col suo avo egoista. È Angelique dunque il vero baricentro di Dark Shadows, l’ombra nera che spurga un rancore secolare provocato (come sempre) dalla leggerezza umana. Diverso Barnabas Collins lo diventa per ritorsione mentre Angelique, nonostante tutto, ci è nata così.

Ecco allora che la parabola dell’antieroe supera, per tensione melodrammatica e patetico risentimento, quella del tragicomico protagonista, maschera grottesca e lunare la cui storia però è destinata alla più omologante delle soluzioni (in zona Twilight per intenderci). Alla fine a frantumarsi sotto i nostri occhi non è solo la cerea (in)consistenza di una triste bambola di porcellana col cuore putrido ma anche l’idea di un romanticismo diverso, incarnato dal sogno malato di chi, non potendo amare, non ha altra scelta che incatenare la sua ossessione dentro una bara. In realtà, tra le movenze sexy e i diabolici propositi di una cattivissima lei, si nasconde uno dei fantocci più tragici e sofferti che abbia mai attraversato i corridoi escheriani del folle poeta contemporaneo. Ancora una volta le tenebre sono più romantiche della luce.



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