Das Narrenshiff

Da Theartship

Paola Pluchino. Esprimere disagio vuol dire avere avuto a che fare ripetutamente o costantemente con un dolore, un trauma, con un atteggiamento vessatorio o arrogante, con una condizione di disequilibrio tra due o più parti. Le forme del disagio da Jacques Lacan in poi hanno assunto delle forme d’ espressione sempre più subdole, smettendo di manifestarsi apertamente nella società che pure le aveva sviluppate in seno.

Se negli anni della sperimentazione della Body Art Marina Abramović, Gina Pane (ma non solo) avevano manifestato un disagio che era estremamente estetico ma superficiale, ossia volto ad una purificazione estatica attraverso il dolore (secondo la triade esteriore/esteta/estasi ) il disagio di oggi pare invece aver mutato il verso a questo percorso, implodendo in una sorta di bidimensionalità quieta ma solo apparente.

La collettiva This Age, impressiona soprattutto per la compostezza con la quale esprime sentimenti che dovrebbero incanalarsi più agevolmente entro coordinate affini alla rabbia, alla violenza, all’inganno percettivo. Invece niente di tutto questo è presentato: una sorta di chiocciola labirintica è stata scavata nella composizione delle opere in mostra, una detonazione interiore di un disagio generazionale (la mostra è curata dai partecipanti al 19° corso in pratiche curatoriali) che pare soffocato nella mura cadenti degli interni (Valentina Sanna), nelle delicate stoffe degli abiti (Claudia Moretti), nelle sovraimpressioni nostalgiche della Russia sovietica (Enzo Comin).

Abilmente allestita negli spazi veneziani dell’A+A Centro Espositivo Sloveno e nell’adiacente Palazzo Malipiero, questo movimento dell’anima si sviluppa su orbite psichiche affini al rimosso, a quel unheimlich che tanto giovava ai filosofi tedeschi che più non trovavano spiegazioni egregie nella pantomima umana.

L’uomo rimane, anche in questa esposizione, nodo focale entro cui i ragionamenti si imbastiscono, le parole si spendono,  gli occhi si consumano. È tuttavia un uomo sopraffatto dalla vertigine del mondo, dall’incapacità di definirsi distintamente e in modo risoluto. È un vinto, un’animula che vaga nella terra desolata dei vivi, un’amante senza pena, il caos postumo e d’assordante nulla.

Questa età che perennemente elude il presente superandolo fa ruotare il tempo in modo antinomico e sincopato,  velando il cielo con il sulfureo olezzo cromatico che tutto prende e niente cede, dimentico della bellissima intuizione che a un poeta dobbiamo: «Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ s’ abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto,/ talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità» (Eugenio Montale).


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