David Foster Wallace Legacy

Creato il 11 settembre 2013 da Lundici @lundici_it

Pulp libri, ottobre 2008

Cosa rimane di un genio suicida? Dedicato a David Foster Wallace a 5 anni dalla sua morte.

Avete mai pensato quanti intellettuali, pensatori, scienziati, cantanti e musicisti, gente del cinema, scrittori che vi hanno influenzato, che hanno mosso più persone e cambiato più vite di un profeta o di un politico ma che hanno volontariamente messo fine alla propria vita? Il loro gesto inficia il loro valore o lo esalta?

Faccio qualche nome: lo scienziato Alan Turing, considerato uno dei padri dell’informatica o il più pop Toni Scott, il regista di Miriam si sveglia a mezzanotte, ma anche di Top Gun e di Una vita al massimo.

Anche fra i nostri connazionali non mancano esempi importanti e toccanti: Luigi Tenco, Primo Levi, Franco Lucentini o Mario Monicelli.

Io, come, molte altre “ragazze della scrittura”, potrei aggiungere Viriginia Wolf “… Ragazze dovrei dirvi … nella mia opinione siete vergognosamente ignoranti. Non avete mai fatto scoperte di alcuna importanza. Non avete mai fatto tremare un impero, né condotto un esercito alla guerra. Non avete scritto tragedie di Shakespeare, e non avete mai impartito i benefici di una civiltà ad una razza barbara. Come vi potete giustificare? È facile … abbiamo avuto ben altro da fare. Senza il nostro intervento nessuno avrebbe solcato questi oceani, e queste fertili terre sarebbero ancora deserto. Abbiamo partorito e allevato e lavato e insegnato e questa fatica, anche ammettendo che ci hanno aiutate, ci ha tolto molto tempo.” Da “Una stanza tutta per sè”

Nella mia collezione di brani musicali, quanti autori suicidi ci sono? Molti, direi: Kurt Cobain, Elliot Smith, Nick Drake, Vic Chessnut e la lista sarebbe ancora molto lunga.

Il farmaco che uccise Alan Turing e il suo certificato di morte – Science Museum, London UK

Ma su tutto il genio che mi ha più di ogni altro colpito è stato David Foster Wallace. La cosa terribile è che ho scoperto la sua esistenza solo dopo che si è ucciso.
Il 12 settembre 2008 la moglie lo ha trovato impiccato sotto il portico della loro casa californiana.

Poi ho letto di lui per un anno; ne ero attratta, tanto per la banalità della vita, quanto per l’eccezionale livello delle opere, ma soprattutto per la maniera originalissima di scrivere. Come buon proposito per l’anno2010 mison data di leggere tutto, note comprese, il suo romanzo infinito “Infinite Jest”. 1281 pagine assolutamente non scorrevoli. Un impegno non da poco, perché comporta un desiderio di far parte di qualche cosa che richiede uno sforzo intellettuale ed è una sfida ad intraprendere una viaggio interiore dove, molto probabilmente ci verranno dette cose di noi che forse non volevamo vedere, conoscere o scoprire.

L’ho iniziato il primo gennaio 2010 e l’ho finito il 31 luglio dello stesso anno. Dopo di che il suo mondo e il suo essere mi avevano avvinto, come l’edera che si inerpica sopra una casa di campagna inglese. Anche se l’edera non è un parallelo corretto: si tratta di un infestante, di un parassita. Non le attribuisci una valenza positiva. Ma è vero, però, che Foster Wallace non ti lascia più e continua a vivere nei suoi libri e in quelli nuovi scritti su di lui o nei manoscritti incompleti pubblicati. Siamo noi, i suoi lettori maniaci, ossessivi, compulsivi che sentiamo che non potremmo sdradicarlo dai nostri pensieri perché crolleremmo e non ci sentiremmo completi. Abbandonare il mondo ereditato da DFW è come desiderare di liberasi dell’organo trapiantato di un donatore morto. Il donatore vive in noi e noi non ne possiamo più fare a a meno.

Ma che cosa ci è stato innestato? Cosa stiamo cercando di far continuare a vivere?
DFW. Lui in persona.

Bastano queste 3 lettere a me, e tanti come me sparsi nel mondo, lettori e scrittori, persone che lo hanno conosciuto veramente e persone che che lo hanno incontrato solo nei suoi scritti, suoi studenti, suoi amici, sua moglie i suoi genitori, per allargare le labbra in un sorriso malinconico e attivare le sinapsi del cervello su qualche stato mentale alienato.

“é strano sentire che ti manca qualcuno che forse non conosci neanche” scrive Lui in persona in Infinite Jest.

Già. Lo conosciamo? Lui è in quello che scrive? Chiunque, può rispondere che forse nella sua narrativa quasi saggistica, tanto dettagliata e documentata, c’era molto di lui: la sua depressione, gli psicofarmaci, le tendenze suicide, l’amore per l’invenzione lessicale, l’immaginazione, la parte scientifica del suo curriculum scolastico, il gioco del tennis, il terrore per i viaggi e le trasferte. Ma quello che non sappiamo o che fingiamo di non sapere è come abbia potuto uccidersi davvero, come dopo che ci ha raccontai i 1000 modi di auto-generarsi dolore o gestire sofferenza e fatica e come andare oltre, e ce lo ha fatto capire in maniera tanto buffa, a tratti divertente e illuminata, dopo che ci ha fatto credere che la parola ti tormenta, che è come un’arma che devi pensarci bene prima di avvicinarti, e studiarla e prenderne la licenza per non farne un uso improprio, perché puoi rimanerne ferito. Ma ogni volta che lo leggevi o ascoltavi i suoi interventi verbali ti faceva credere che è comunque è un arma che ti salva, uno strumento che non solo descrive ma fa vivere le cose. La sua scrittura sembra una soluzione: se riusciva a farti provare tanto, di tutto e approfonditamente, che bisogno c’era, per te, di uscire e provarlo realmente tutto quello di cui parlava? Perché tutte le cose che ci ha insegnato su noi stessi, non sono state valide per lui? Ma allora, lo conoscevamo veramente?

Eppure ci manca e cerchiamo di perpetuare la sua presenza seguendone le tracce, per averlo eternamente con noi.

Ed è stato così per il suo amico scrittore Jonathan Franzen che in “Più lontano ancora” ci parla del suo viaggio in un’isola solo con una copia di Robison Crusue, in compagnia delle ceneri di DFW.

Ed è così per lettori scrittori come Dave Eggers o Paolo Giorno, l’autore de La solitudine dei numeri primi che scrive della biografia di DT Max “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”: “David Foster Wallace mi manca, sì, mi manca il suo essere-nel-mondo, quindi escogito dei modi per averlo vicino, e l’ultimo che mi si è offerto è questa biografia”.

Chissà cosa penerebbe DFW di tutto questo seguirlo, dibattere su di lui, sulla sua immaginazione, sulle sue manie, sulla sua depressione, sulla sua vita, sulle sue opere e sulla sua morte. non avrebbe sopportato di essere oggetto di un tale culto e di tanta attenzione.

Il numero di Pulp libri dedicato a David Foster Wallace

Perchè si è ucciso? Forse in Infinite Jest ci aveva avvertito:

“… La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, delle fiamme, del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori.

Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. ” In Infinite Jest.

Infinite Jest pag 245

Chissà se è proprio questo che ci voleva insegnare. Voglio però ricordarlo così, nel suo realismo isterico, nel suo tentativo di trasformare in letteratura leggibile la realtà sempre in movimento e i pensieri complessi della mente di ogni persona.
“A me sembra che la scrittura letteraria implichi una forma di distorsione di quanto effettivamente avviene nella comunicazione corrente, dove non succede mai che chi parla sia concentrato unicamente su quel che dice o su ciò che ascolta. Per la testa, intanto, ci passano sempre altri pensieri, e più o meno consapevolmente l’attenzione si sposta di continuo. Al contrario, quando si legge il dialogo riprodotto in un testo, si richiede alla concentrazione di seguire in modo lineare un passaggio alla volta. A questo punto, si offrono allo scrittore due modi di riprodurre quanto avviene nella vita vera: tagliare via le digressioni del pensiero, limare tutto ciò che non riguarda l’argomento principale creando l’illusione di una realtà a una dimensione, oppure riprodurre per quanto possibile la multiformità del pensiero. Il significato delle mie note a piè di pagina sta nel ricordare che sono tante le cose che attraggono allo stesso tempo l’attenzione. Ma in questa costruzione dei miei testi non intendo stabilire gerarchie, dunque non direi che affido alle note ciò che mi sembra più significativo; semplicemente, vorrei ricalcare in modo realistico quel che effettivamente avviene nella nostra testa, stabilendo una relazione tra il testo principale e le note.” Dall’intervista di francesca Borrelli a DFW, apparsa su Il manifesto il primo luglio 2006.

Metti "Mi piace" alla nostra pagina Facebook e ricevi tutti gli aggiornamenti de L'Undici: clicca qui!


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :