David Gilmour dentro lo smartphone

Creato il 17 settembre 2015 da Ilgrandemarziano
L'altro giorno, al concerto di David Gilmour, sembrava di stare dentro un saggio di Walter Benjamin. Di fronte a quelle persone (parecchie) intente a guardare lo spettacolo attraverso lo schermo del loro smartphone che, intanto riprendeva ogni istante dell'esperienza, mentre il grande chitarrista snocciolava uno dopo l'altro capolavori come Time, Money, Us and Them e Shine on You Crazy Diamond, era come essere dentro un'opera d'arte al tempo della sua riproducibilità tecnica. Anzi no. Dentro una vita al tempo della sua registrabilità tecnica.
In un'occasione del genere, naturalmente, qualche foto è d'obbligo, a testimoniare, quando l'adrenalina sarà passata e l'eco della chitarra si sarà spento nelle orecchie emozionate, che quell'evento epocale ha inciso davvero qualche lastra del nostro passato, e non ci siamo solo crogiolati nell'inventarcelo, come un desiderio reso quasi palpabile da un sogno. In fondo è questo che in genere fanno foto e souvenir: conferire materia ai ricordi, dimostrandoci in ogni momento che ciò che è passato e non è più, in una qualche coordinata della matrice dell'esistenza dell'universo è - effettivamente - stato. Però, stare lì, tutto il tempo col telefono in mano e godersi il concerto attraverso lo schermo è qualcosa di più che surreale. Cioè, tu paghi profumatamente un biglietto anche non facile da trovare e poi vieni qui e buona parte dello show te lo passi con lo smartphone in mano a riprendere un video normalmente di pessima qualità sia vedersi che ad ascoltarsi?
Questo porta a osservare che oggi (per molti) sembra divenuta decisamente più importante la registrazione dell'evento, piuttosto che l'evento stesso, ovvero il file da riprodurre, piuttosto che la memoria biologica della costellazione di sensazioni che l'evento ha scatenato. È come se il semplice ricordo (ancorché vissuto fino in fondo) non bastasse più, o fosse addirittura un accessorio trascurabile, e la vera soddisfazione (la vera vita?) trovasse ormai compimento nel portarsi a casa un brutto video che, dopo averlo mostrato [CONDIVIDI] con orgoglio agli amici reali e virtuali (che non erano riusciti a recuperare il biglietto o che nemmeno sanno chi diavolo sia questo Gilmour, però bravo, eh), probabilmente nemmeno guarderanno più e del quale addirittura dopo qualche giorno si dimenticheranno, ma che magari addirittura riuscirà a sopravvivergli dentro qualche recesso di memoria a stato solido, come una specie di trofeo illusorio rubato alle grinfie dell'oblio.
Costoro, tuttavia, probabilmente non si renderanno mai conto che quel video qualcosa ha finito per costargli, mentre le loro mani erano impegnate a tenere l'inquadratura e il loro sguardo, come la loro attenzione, nella migliore delle ipotesi si divideva, un po' qua e un po' là, tra lo schermo HD e il palco. Si ha quasi l'impressione che la conquista della digitalizzazione del mondo (e con esso della vita) abbia fatto perdere ad alcuni (molti?) il gusto se non addirittura il senso del concetto di esperienza, ovvero il piacere e l'emozione di vivere uno straordinario accadimento dell'esistenza con la focalizzazione e la sintonizzazione di tutti i sensi, e la concentrazione e la consapevolezza di tutto l'essere. Invece, anche se sono lì, presenti dal vivo, questi spettatori scelgono di ridursi a guardare lo spettacolo dentro lo schermo, senza rendersi conto che, non solo è una drastica riduzione dell'esperienza, ma anche una sua anonimizzazione, perché la mediazione del display toglie vita ed energia alla performance e depotenzia l'attenzione della sua fruizione, decapitandola delle impareggiabili vibrazioni dell'esistenza. E non credere che sia poco.

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