David Lynch, classe 1946, è senza ombra di dubbio uno dei più originali cineasti statunitensi degli ultimi decenni. Nella sua lunga carriera ha vinto due meritatissime Palme d’Oro al Festival di Cannes, due premi César e un Leone d’Oro alla carriera.
Attraverso i suoi film, col passare degli anni, ha introdotto nel cinema americano uno stile particolarissimo: un puzzle inestricabile, in cui convivono mistero, perversione ed ambiguità, sempre a cavallo del confine indistinto che esiste fra il sogno e la realtà.
Personaggio carismatico, geniale quanto visionario, ha sempre mantenuto un riserbo quasi ossessivo sul significato delle proprie opere. Si è mostrato aperto a digressioni verso altre forme artistiche: dalla pittura alla musica, dal design alla televisione (se questa può essere considerata una “forma d’arte”), sviluppando uno stile narrativo del tutto innovativo. I suoi film, pertanto, risultano inconfondibili al pubblico internazionale: sia per quanto concerne l’energica componente surreale, sia per quanto riguarda le loro sequenze oniriche, in cui molto spesso immagini crude e bizzarre vengono accompagnate da colonne sonore estremamente suggestive.
Nonostante non sempre abbia riscosso un grande successo al cosiddetto “box office”, David Lynch è universalmente apprezzato dai critici e, allo stesso tempo, continua a godere di un nutrito seguito di appassionati.
Spesso i suoi lavori hanno esplorano il lato oscuro delle piccole città statunitensi (“Velluto blu”) e delle metropoli caotiche (“Strade perdute” e “Mulholland drive”), giungendo a sondare i lati più oscuri ed intimi della mente.
Il suo esordio con “Eraserhead – La mente che cancella” (1977), suscitò un immediato scalpore fra gli addetti ai lavori. Il film venne pesantemente massacrato dalla critica ufficiale, ma fu successivamente riscoperto dal pubblico che lo fece assurgere al rango di cult-movie (specialmente nei circuiti “non ufficiali”). Mel Brooks, cineasta piuttosto originale, si accorse immediatamente del nitido talento di Lynch. “Sei pazzo, ma mi piaci”, esclamò in maniera lapidaria, scegliendo di affidargli la regia di “The Elephant Man” per la sua casa di produzione.
Nel 1984, Lynch dirige “Dune”: un fantasy ermetico ed innovativo tratto dal romanzo di Frank Herbert. Nonostante l’iniziale incomprensione del pubblico – causata soprattutto dall’astrusa complessità della trama – il film introduce alcuni degli elementi che torneranno spesso nelle opere successive quali la potenza dell’immaginazione, la presenza di monologhi interiori pieni di mistero ed il ricorrere incubi indistinti. E così la vicenda narrata riesce essere allo stesso tempo epica e mistica, in un ricercato equilibrio tra antico e moderno che ha fatto definire la pellicola una sorta di “fantascienza del passato”.
Con “Velluto blu” (1986), il regista raggiunge piena la maturità stilistica. Provocatorio e spregiudicato, grottesco e romantico, il film si dipana lentamente, mostrando la psiche conflittuale del protagonista Jeffrey, diviso tra sesso ed amore, morbosità e purezza. E così, nell’arco dei 120 minuti della trama, si scoprono evidenti commistioni tra cinema e sogno, realtà e finzione, incubo ed immaginazione.
Una vera e propria svolta nella carriera di David Lynch giunge con “I segreti di Twin Peaks” (1990-1991), una serie TV in 6 episodi. Ambientata in una cittadina rurale, dove dietro un’apparenza di perbenismo si celano intrighi e segreti, la serie conquista immediatamente i gusti del pubblico di tutto il mondo: costruita in maniera eccellente, nasce come giallo avvincente con al centro l’omicidio di una ragazza, diramandosi poi attraverso una serie di misteri paralleli, tra l’esoterico ed il paranormale, in pieno “Stile Lynch”.
La stagione successiva il regista torna al grande schermo con “Fuoco cammina con me” (1992), pellicola che costituisce una sorta di prequel/sequel della serie televisiva. Si tratta a tutti gli effetti di un’opera minore, che non aggiunge grandi guizzi alla cinematografia di Lynch ma in cui sono comunque riscontrabili quegli elementi metaforici, inquietanti e misteriosi che appartengono all’immaginario dell’autore statunitense.
L’ultimo film di David Lynch è “Inland Empire – L’impero della mente” (2006). Disorganico, difficilmente comprensibile e tutt’altro che lineare rappresenta – come ha sostenuto qualche critico – un’ “esperienza sensoriale”: il flusso ininterrotto del libero pensiero di un artista che non richiede spiegazioni, ma solamente intuizioni ed emozioni personali.
Dopo questa rapida carrellata, possiamo definire David Lynch come uno dei talenti più rivoluzionari, visionari ed autentici dell’ultimo trentennio. Autore di pellicole capaci di trasmettere ossessioni e perversioni, deformità e devianze, inquietudini ed orrori, le sue opere arrivano spesso a mostrare percezioni deformanti, avvinte in vortici onirici.
La statura intellettuale di Lynch sta soprattutto in questo: nella consapevolezza che non sono necessari sforzi per realizzare un film, se prima non ci si perde completamente all’interno di un’idea.
Piergiorgio Vigliani