N. 1
Più dura è la nostra vita
della Tua, Signore,
rotta, giocata,
dall’onda di giorni
disumani
sulle macerie di pietre;
(le mie ossa levigate
come le piastre della spiaggia).
Eppure non voglio che sia condanna
alle Tue opere
questo mio salmodiare
sconsolato. Tu sei la sorpresa
orrenda, l’insidia
sempre tesa, onde
non è concesso investigare
cosa maturi
ogni notte
il sangue.
Sei il nostro affamatore,
non lasci cogliere i frutti
di questo giardino terrestre,
ove fioriscono rose, musiche, e mani
candide come i lini
dei Tuoi altari; e occhi
più splendenti degli astri.
Feriti, arsi, dilaniati
da queste Tue forme
irraggiungibili;
una ad una
cadute le speranze
sotto l’arco di queste
stagioni inesorabili, lungo
le dolcissime riviere;
mentre è sentita consumarsi
la carne
nell’attesa
di inattuali paci.
La pena è d’aver creduto,
udito un messaggio
necessario,
che promette e non muta
nulla di questa
arrischiata avventura;
speranza che ti lascia
in balìa di una scelta
cieca, di una
vocazione
inevitabile.
E l’anima resta
impigliata nei sensi
come un uccello avvinto,
mentre il pensiero
ferisce la carne
e gli affetti suonano
su queste corde,
anche nell’alto silenzio
delle nostre
notti deserte;
anche se il cuore ormai
ha troppo sofferto l’arsura
di queste insufficienti
fontane; mentre Iddio
ancora non si vede,
non si sente,
è lontano.
A noi è impossibile Cristo.
Abbiamo nell’anima un peso,
la colpa fa nido dentro le ossa.
E però sappiamo
che non ci condanni
se cerchiamo sfamarci
di ciò che Tu stesso hai creato.
Tutto è nostro:
la vita, la morte,
che paghiamo ogni giorno
adorando cose da nulla.
E, dopo tutto, non resta
che la corolla di queste parole
maledette, rosse
di sangue, fiorite
dal rimorso di averle
raccolte; e forse
il gesto libero
della sua pietà.
(Dai “Salmi penitenziali per la Settimana Santa del 1946")
David Maria Turoldo (da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” – pag. 75)
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