Davide Cali è tanto prolifico quanto versatile. I suoi libri sono sempre piccoli capolavori di fantasia e progettualità. Famoso come autore per bambini, mantiene sempre viva la passione per il suo primo amore, il fumetto.
Nato in Svizzera nel 1972, cresciuto in Italia, Davide Cali è ormai cittadino del mondo come i suoi libri. Dagli esordi come fumettista su Linus, oggi ha all’attivo più di 60 libri, tradotti in più di 30 paesi; con lo pseudonimo di Taro Miyazawa nel 2009 ha scritto Le Premier jour de classe, e con quello di Daikon ha pubblicato sul blog la vie hors du Paradis la serie Adam (& Ève): La vie hors du Paradis, apparsa sulle riviste L’echo des savanes (2009) e Fluide Glacial (2013), mentre i suoi fumetti per bambini appaiono sul mensile Mes premiers j’aime lire (Bayard Editions). Il suo sito ufficiale è www.davidecali.com.
Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita di “Mamma prima dov’ero?”, una poetica risposta a una delle domande più frequenti nei bambini, ma la conversazione si è presto estesa. Dalle questioni sul linguaggio ai problemi di traduzione, dal processo creativo all’editoria digitale, scopriamo insieme il mondo dell’autore.
Non lo so, non te lo so dire, non ho figli… sai che non me lo ricordo? È una storia che ha avuto una lavorazione un po’ tortuosa, ma come alle volte capita… sono due anni che gli siamo dietro con Rizzoli. Io scrivo tantissimo… faccio libri, fumetti, generi diversi… non me lo ricordo davvero!
Hai scelto tu l’illustratore (Thomas Baas) o no in questo caso? E se sì, perché lui? Cos’è venuto prima? La storia o l’illustratore?
È venuta prima la storia, poi l’illustratore. Mi piace Thomas. Lo conosco da tanti anni, mi piace praticamente tutto quello che fa, anche quando cambia stile, perché fa cose molto diverse. Secondo me era adatto. È difficile spiegare, quando scegli un illustratore, il motivo. Io li conosco, li osservo, alle volte per anni, da lontano, per cercare di capire cosa si potrebbe fare insieme, alle volte provo a pensare a una persona per un libro, poi ci ragiono un secondo, so come lavora, i limiti, alle volte dico no, magari lo tengo per un altro libro… alla fine vai a impressione, e lui secondo me era adatto.
I tuoi libri sono spesso veri progetti editoriali, più che meri racconti. Questo ad esempio sembra una poesia illustrata: il testo è tanto sintetico quanto poetico. Perché hai scelto questa forma?
Non l’ho scelta in realtà… le storie mi arrivano così, poi alcune vanno un po’ coltivate, inseguite… Questa ad esempio è la classica storia scritta in venti minuti! Posso scrivere nella stessa giornata questa cosa, una cosa da adulti, un pezzo di fumetto. Non ho tanti ricordi di come sia nata questa storia, però ne ho scritte tante storie d’amore, poetiche che sono più flash, sono momenti: diciamo che una delle corde della mia narrativa, me ne sono reso conto, è la vena un po’ poetica, i libri che non sono storie ma sono raccolte di pensieri, ricordi, sentimenti,… non è una scelta che viene così; non necessariamente se scrivo una cosa così è legata a un momento poetico o triste.
Il fumetto infatti continui a farlo. Che cos’è che di volta in volta ti fa propendere verso un genere piuttosto che l’altro? Fumetto o racconto illustrato?
Il fumetto ce l’ho un po’ sempre dentro, è rimasto alla fine un po’ la mia malattia quella di visualizzare i libri, per cui io li vedo già un po’ mentre scrivo. Non c’è un motivo, ma vedo già l’illustratore, o un genere, o qualcosa che mi piacerebbe, o vedo il film, vedo l’animazione… quello mi è rimasto dal fumetto. Ora ho smesso di fare gli storyboard, ma fino a pochi libri fa li ho sempre fatti: all’inizio per farli vedere agli editori italiani, con cui ho smesso abbastanza presto di lavorare (solo adesso ho ricominciato), poi lavorando in Francia, sai all’inizio pensavo: dove non arrivo con la lingua arrivo con il disegno. Poi mi sono reso conto – ci ho messo un po’ – che io scrivo così, scrivo delle cose che sono immagini, quindi o faccio delle descrizioni lunghissime, di 4 o 5 righe, per spiegare cosa deve succedere di fondamentale per la narrativa – senza imposizione per l’illustratore, che può interpretare come vuole – per spiegare quello che nella storia proprio ci deve essere, o se no faccio il disegno. Quindi una deformazione al racconto per immagini mi è rimasta dentro. Poi non è fumetto necessariamente, infatti il libro per bambini è una cosa diversa.
Questi in Italia non arrivano…
Quelli francesi no, e ti direi che l’onda della bandes dessinnées è finita. C’è stato un paio d’anni fa un po’ di ritorno con Trondheim e Sfar, solo che non vendevano niente. L’analisi che ho fatto io è che li comprassimo solo noi professionisti, che poi in realtà li avevamo già comprati in Francia… So che veramente Trondheim ha venduto pochissimo: Lapinot in Francia ha fatto nove tomi più tutte le avventure senza Lapinot perché lui a un certo punto muore e qua ho visto che non funzionava, quindi noi siamo arrivati tardi… Ho provato a farli vedere a qualcuno in giro, ma non c’è l’interesse. Non è facilissimo tradurre, secondo me, il fumetto dal francese. Non è che lo veda tantissimo tradotto in altri Paesi. Joelle lo è in Svezia e Dix petits insectes in Australia, in inglese. Non so neanche se poi ha senso la speranza di essere tradotti qui… ho lavorato un po’ alla traduzione de L’ennemi, una casa editrice aveva comprato i diritti di Marlène balène e allora gliel’ho proposto… quello ci tenevo un po’ che uscisse anche in Italia, ma comunque è tradotto in 15 lingue… Io ho fatto 60 libri e qui ce ne sono 4 o 5, te ne devi un po’ dimenticare, intanto gli amici ti seguono lo stesso, i fan italiani ci sono, comprano su Amazon. Magari non sei nelle librerie ma pazienza.
Mi sarebbe piaciuto lavorare con Corben… gli ho scritto un po’ di tempo fa mi ha detto che aveva da fare… scherzi a parte, mi sarebbe piaciuto anche con Zezelj e non è detto che non succeda… gli avevo mandato un graphic novel. Mi piace molto Tuono Pettinato, ma ho visto che lavora piuttosto da solo, mi piace molto la coppia Dupuy – Berberian, uno sceneggiatore l’altro disegnatore, mi piacerebbe fare un po’ una cosa in quello stile, anche se credo che ormai lavorino molto in coppia. Lavoro comunque già con Yannick Robert, anche se ci firmiamo en cachette, di nascosto, io sono Daikon e lui è Bob e facciamo una serie che si chiama Adam e Eve, e mi piacerebbe fare un romanzo con lui. Adesso c’è una mezza idea, gli ho mandato una serie, non è un romanzo, è una serie che dovrebbe funzionare a puntate su una rivista, ma poi da raccogliere in libro.
Sul blog La vie hors du Paradis troviamo il Davide per adulti invece. Cosa diresti che ha in comune con il Davide per bambini?
Non saprei. Forse, guardando le situazioni di La vie hors du Paradis e Non ho fatto i compiti perché c’è un po’ questo gusto compilatorio, delle sciocchezze che possono fare le persone: da una parte c’è un bambino, dall’altra un adulto un po’ scatenato, un po’ Homer Simpson, però, a parte questo non saprei. Rispetto ad altri fumetti, ad altri progetti che sto mettendo giù ti direi nulla, nel senso che sono impostati su modelli diversi, standard diversi. Ho scritto quest’estate la storia di un romanzo a fumetti su un serial killer, che rispetto a quello che faccio per bambini non ha nulla a che vedere. Adesso ho un’altra serie, vediamo se comincia, potrebbe essere un po’ accomunata a Joel, c’è un po’ di mistero, non so se la metteranno per adulti o bambini, però di solito se scrivo per adulti penso di fare cose diverse ed è il motivo per cui io e Robert abbiamo anche cambiato nome sul blog di Adam. In realtà, uno pseudo ce l’hanno chiesto da Fluide, “perché i vostri nomi sono lunghi”: io ho scelto Daikon che è la rapa giapponese, ma vuol dire anche stupido, e lui si chiama Yannick Robert, e quindi tutti, anche sua moglie lo chiamano Bob. E andava bene, perché i bambini – e io sono sempre ai saloni, nelle scuole – cercano informazioni su internet, allora bisogna evitare le commistioni.
Il linguaggio che si usa è molto importante. Tu stai dalla parte di chi sostiene che il linguaggio per bambini deve essere elaborato per insegnare nuovi termini, o che invece debba essere il più semplice possibile? (per spiegare si interrompe lettura…)
L’unica cosa che mi sono imposto quando ho cominciato a scrivere era di non prendere i bambini per stupidi quindi di parlare con loro come se parlassi con degli adulti, ma non proprio allo stesso modo perché è una cosa che vedo spesso fare ai genitori e non mi piace: parlano con i bambini come se fossero i mariti, i colleghi… invece secondo me bisogna parlare tranquillamente, usare parole difficili sì, anche in inglese, altre lingue, però spiegandole, spiegando nella narrazione il senso di una parola o di un concetto o di un qualche cosa che può appartenere alla vita degli adulti. Ho preso sempre modelli penso abbastanza alti, di autori che mi piacevano, ho sempre raccontato quello di cui avevo voglia, senza mai aver paura che i bambini non capiscano, o che si spaventino, che abbiano paura; ho raccontato l’amore, la morte, la guerra, il senso della vita, cose filosofiche, cose molto più stupide, ho fatto libri comici… Ormai faccio libri da oltre una dozzina d’anni, e queste erano proprio le primissime idee, quando ti fai un po’ di regole tue, ma ormai da tantissimi anni ai bambini non ci penso. Ho scoperto che il libro per bambini dà modo di raccontare delle storie visive, che è un po’ ripeto la mia malattia, perché tant’è sono un consumatore di fumetti, un lettore di fumetti, faccio fumetti, un consumatore di cinema, la narrazione visiva appartiene al mio modo di vivere, e ho scoperto che con i libri per bambini puoi raccontare un sacco di cose, anche agli adulti, perché quando fai dei libri un po’ trasversali li leggono anche gli adulti e secondo me riesci a dire agli adulti delle cose che non accetterebbero se le scrivessi per loro. Quindi ho scoperto questo oggetto editoriale – il libro per bambini – un po’ trasversale e me ne servo ogni volta che voglio raccontare una storia. Poi ultimamente sto sconfinando, ho fatto delle cose molto da adulti, Polline per esempio è una storia d’amore che sembra stia piacendo tantissimo, gli adulti fanno un sacco di complimenti, piace ai bambini, e ho smesso di pormi il problema. Alle volte se lo pongono gli editori e quindi ti chiedono di cambiare qualcosa, di rivedere… per esempio ho scritto un romanzo per gli 11/12 anni e mi han detto ci sono alcune parolacce: “queste per i bambini cerchiamo di non metterle ancora… se fosse per i 15/16 ok… se no i bibliotecari bocciano la collana…”.
Ovviamente quando traduci una lingua alle volte devi tradurre delle cose che vanno al di là della lingua letterale… C’è stato qualche problema, ma sono sempre disponibile a cambiare: con una casa editrice taiwanese, per esempio, e La regina delle rane non può bagnarsi i piedi. Alla fine del libro si scopre che la corona che dà origine a tutta la storia è un anello, e i taiwanesi ci scrivono: “Perché un anello? È troppo piccolo! Doveva essere un bracciale!”. Allora io che sono appassionato di animali, vado a cercare e scopro che a Taiwan, Indocina, Corea, le rane sono molto grandi, quindi ho chiamato Marco Somà (l’illustratore, ndr) e gli ho chiesto se aveva voglia di cambiare l’ultima tavola. Diciamo che in una storia di fidanzati l’anello è un pochettino più simbolico, se vuoi, ma ci poteva stare. Poi è capitato con L’ennemi, negli Stati Uniti: la prima offerta che ci fecero di traduzione l’abbiamo rifiutata, perché gli americani, come tutti gli anglosassoni, hanno una cultura dell’albo per bambini decisamente più tradizionale. I bambini rimangono bambini più a lungo: non si parla di guerra, non si parla di cose brutte… Comunque volevano comprare questo libro e ci hanno fatto un’offerta, salvo che poi volevano togliere il sangue, tutto le frasi crudeli, diverse immagini e diverse parti di testo, quelle veramente più dure. Al che l’editore ci ha consultato, e anche se l’offerta economica era interessante abbiamo detto no. Poi l’ha comprato un altro editore che ci ha chiesto dei tagli, ma solo per entrare nel formato, per cui abbiamo lavorato sul testo e sulle immagini ma per quei tagli che a volte ti chiedono: bello questo libro, ma invece di 48 pagine, possiamo farlo di 42? E poi la più divertente, J’aime t’embrasser, che è una collezione di baci, tradotto in Giappone, salvo che in Giappone non ci si bacia in pubblico, così ci hanno chiesto alcuni tagli. È un libro di 40/50 pagine e ci han chiesto un taglio di 8 pagine, un po’ consistente. Subito mi è sembrato strano perché ho amiche giapponesi con cui ci si bacia quando ci si incontra, ma mi hanno confermato… solo che mi pareva strano parlare di baci se poi ti imbarazza farli vedere… anche se è vero che magari i giapponesi adulti sono abituati anche loro al cinema americano, però i bambini no… e quindi alla fine abbiamo tagliato.
Il tempo ha cambiato il tuo modo di scrivere? Come?
Penso di sì, sai all’inizio ho cominciato con i racconti comici, poi sono passato agli album, poi sono passato agli album francesi, quindi con i limiti della lingua all’inizio ho fatto cose molto semplici, poi ho cominciato, praticamente subito, a scrivere direttamente in francese, ancora cose molto semplici, poi diciamo che evolvendo la lingua francese, chiaramente mi sono preso il piacere di fare cose lunghe, quindi è uscito L’ennemi, nel 2007. L’anno scorso invece è uscito il mio primo romanzo, un romanzetto, un testo breve, però intanto è senza disegni, solo dialoghi, L’amore matematico. Poi devo dire che anche in italiano, sì, scrivendo tante cose, chiaramente ho cambiato un po’ : l’anno scorso per esempio – in teoria per Monica Barengo poi vediamo se riusciamo a farlo – mi sono divertito con una lingua italiana un po’ impostata, perché la storia è ambientata nell’Inghilterra del 1800 ed è una storia di salotti, di baroni, di tè, principesse, e la lingua mi ha preso proprio. Senz’altro le lingue ti portano in direzioni diverse, ti prendono – almeno secondo me – un po’ per mano: a me è successo con le prime storie che traducevo, che diventavano poi un’altra cosa, e anche adesso che scrivo in inglese cerco di entrare nella mentalità, nello stile, e mi vengono delle gag che non mi verrebbero assolutamente in italiano o in francese. Quindi penso che in generale sì, il tempo e le lingue più recentemente hanno in generale cambiato parecchio il mio modo di scrivere.
Riesci a lavorare su più progetti contemporaneamente o preferisci chiuderli, mentalmente, uno alla volta? Il prossimo dov’è? Ancora in testa, sotto forma di inchiostro o già in stampa?
Mediamente lavoro su 20/25 progetti alla volta. La storia della mamma l’ho scritta penso in venti minuti e poi ci sono voluti due anni a finirla. Quindi tutto va avanti piano piano: riscrivi, riprendi, è impossibile secondo me chiudere una cosa e aspettare l’altra. A livello di creatività butto fuori anche molte più cose contemporaneamente magari, a livello di produzione vera e propria, mediamente sono sulla ventina. Adesso stiamo lavorando al sequel di Non ho fatto i compiti perché, e abbiamo in coda già altri due libri possibili, più una cosa per adulti per Chronicle, più altro.. a Sarbacane propongo quattro o cinque cose per volta, c’è il terzo volume della serie romantica-turistica Bon baisers ratés: dopo Parigi e Venezia c’è New York.
Questo è un lavoro in cui non arrivi mai da nessuna parte, secondo me, ma cominci tante volte. Io ho iniziato tanti anni fa con Linus, ho lavorato per loro parecchi anni, e mi sembrava che fosse più o meno quello che volevo: tante riviste con cui avrei voluto lavorare non esistevano già più, ma almeno facevo fumetti, tutti i mesi. Poi ho fatto illustrazioni, ho fatto vignette, strips.. Poi da lì sono passato al libro per bambini, ho cominciato a lavorare in Francia e quindi c’è stato questo grosso spostamento. Dopo dieci anni di Francia adesso c’è l’America: direi che la nuova tappa è un po’ quella. Nel frattempo ho lavorato in Austria e ho fatto dei libri in Portogallo, ma diciamo che la nuova frontiera per i prossimi anni, se tutto va bene, sono l’Inghilterra e gli Stati Uniti, il mercato anglosassone. Nel frattempo sono successe tante cose, ho mollato il fumetto, l’ho ricominciato, sto cominciando a fare delle app, l’anno scorso ne ho disegnata una e una dovrebbe uscire quest’anno perché è un e-book, è un lavoro complessissimo, animato, c’è parecchio da fare.
Cosa pensi dell’editoria digitale per bambini? Possono convivere tecnologia e fantasia? Cosa una può aggiungere all’altra? Mi riferisco proprio alla app A ciascuno il suo per Kite edizioni.
Quella lì è fatta con Paramecio, quindi una cosina piccinina. In teoria dovevo fare anche il libro, adesso vediamo. Però è venuta carina, siamo candidati a un premio, insomma…sono abbastanza convinto che i bambini come noi tutti, viviamo attaccati al computer, al telefono, non so se è questo che impedisce – a chi lo fa – di leggere. Per i bambini perché no, vanno bene le app. Una cosa che proprio non mi piace è la traduzione del libro in digitale, che sfogli e basta in digitale: noi stiamo cercando di fare delle cose un po’ diverse, il libro è il libro, l’iPad è l’iPad, la televisione è la televisione. Poi capisco quelli che leggono in digitale i romanzi, perché comunque è comodo per chi viaggia. A me piace un po’ tutto, carta, digitale, a diciotto anni disegnavo videogiochi, e con questa applicazione mi sono divertito. Dall’anno scorso sono dentro la produzione di un e-book, e ho intenzione di disegnare delle altre app se riesco, sempre con Paramecio, perché ho dei progetti che erano nati come libro, ma poi in realtà ho scoperto, portandomeli in giro per farli vedere ai bambini in pdf, perché la carta pesa, che in digitale funzionano benissimo. Non ho capito ancora quanto margine ci sia di guadagno perché sembra facile, ma in realtà ci sono dei costi altissimi, ma vedremo. In ogni caso non lo vedo come un tradimento della carta.
Per finire, su Frizzifrizzi finisci sempre col fare decaloghi… ne fai uno anche per Lo Spazio Bianco? A tua scelta…
Forse posso dirti dieci cose che ho nella mia borsa da viaggio? Parto domani per un weekend di workshop e quindi mi porto:
1 – un fumetto di Paco Roca
2 – cioccolato
3 – pennarelli
4 – una raccolta di racconti di Gianluca Favetto
5 – cerotti (mi servono per le dediche)
6 – cavo adattatore mac/vga
7 – chiavetta internet
8 – vari plettri
9 – smalto verde scuro
10 – cuffie
<
Intervista realizzata a Genova, il 5 febbraio 2014.
Etichette associate:
Davide CaliIn Evidenza