Davidson, Rorty e il pragmatismo

Creato il 25 ottobre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Circolo di Vienna

di Michele Marsonet. In molti suoi saggi Richard Rorty associa le posizioni di Davidson al pragmatismo, e ne parla come di colui che è riuscito a rendere nuovamente accettabili le tesi pragmatiste nel pensiero contemporaneo. In questo senso, Davidson diventa per Rorty uno dei principali esponenti – se non addirittura il principale in assoluto – di quella che si suole oggi definire filosofia “postanalitica”; gli viene riconosciuto, unitamente ad altri pensatori, il merito di aver compreso che “non esiste nulla di simile al linguaggio, almeno se con linguaggio si intende qualcosa di simile a ciò che i filosofi hanno supposto. In altre parole, dobbiamo abbandonare l’idea di una struttura comune e chiaramente definita che gli utenti del linguaggio padroneggerebbero per poi applicarla caso per caso”.1 Rorty prosegue affermando:

Ritengo che Frege e il primo Wittgenstein siano i filosofi fondamentalmente responsabili di averci imposto l’idea che esistesse davvero una struttura simile, condivisa e chiaramente definita. In particolare, dobbiamo a Wittgenstein l’idea secondo cui tutti i problemi filosofici possano in linea di principio essere risolti in modo definitivo, esibendo questa struttura. Ritengo che il secondo Wittgenstein, Quine e Davidson siano i filosofi che ci hanno liberato dall’idea dell’esistenza di una simile struttura. Il primo Wittgenstein aveva definito il mistico come “il sentimento del mondo come un tutto limitato”. Contrariamente a ciò, il secondo Wittgenstein si impose sul pensatore più giovane, più schopenhaueriano, non avvertendo più il bisogno di essere mistico, non sentendo più la necessità di elevarsi al di sopra del tutto, ponendo se stesso, in quanto “limite indicibile del mondo”, in contraddizione col mondo.2

Il problema è che tanto Quine quanto il suo allievo Davidson hanno sempre manifestato perplessità ogni volta che qualcuno ha tentato di identificarli tout court con il pragmatismo. Il motivo dell’atteggiamento di Quine è facilmente comprensibile, ove si rammenti che, pur avendo senz’altro contribuito alla riscoperta delle tesi pragmatiste con il celebre saggio “Due dogmi dell’empirismo” e con altri suoi scritti,3 il filosofo di Harvard non si è mai staccato dall’eredità neopositivista e neoempirista.4 Per quanto riguarda invece Davidson, possiamo notare che quando in una recente intervista gli è stato chiesto se egli si considerasse davvero un pragmatista, ha risposto: “Non lo nego, ma non capisco di preciso cosa voglia dire.”5 Vi sono dunque buone ragioni per chiedersi fino a che punto l’interpretazione rortiana di Davidson sia fondata.6

In effetti, se prendiamo in considerazione ciò che Quine dice in “Due dogmi”, notiamo subito che il suo riavvicinarsi al pragmatismo ha un carattere strumentale. Gli interessa innanzitutto separare l’empirismo tradizionale dal positivismo logico di ascendenza viennese, e la mossa che gli consente di centrare questo obiettivo per fondare, appunto, un empirismo “senza dogmi” è il superamento del confine tra analitico e sintetico (mossa che verrà più tardi accettata anche da Davidson). Quine ritiene che, nei secoli scorsi, vi siano stati cinque punti grazie ai quali l’empirismo ha determinato una svolta positiva nella storia del pensiero. Eccoli elencati di seguito:

(1) Il passaggio dalle idee alle parole;

(2) il passaggio dell’attenzione semantica dai termini agli enunciati;

(3) il passaggio dell’attenzione semantica dagli enunciati ai sistemi di enunciati;

(4) l’abbandono del dualismo analitico/sintetico;

(5) la rinuncia a una “filosofia prima” che preceda la scienza (naturalismo).7

Una precisa conferma dell’atteggiamento strumentale quineano verso il pragmatismo si trova inoltre nelle seguenti affermazioni:

Non mi è chiaro che cosa comporti essere un pragmatista (…) Sospetto che il termine “pragmatismo” sia uno di quelli di cui potremmo fare a meno, poiché lo ritengo un termine di nessun valore pragmatico (…) Tutti [i] pragmatisti professi o patentati appartengono, a quanto pare, alla tradizione empirista (…) Penso che nei due secoli passati ci siano stati cinque punti di svolta per cui l’empirismo ha fatto segnare una svolta in positivo.8 Propongo di descrivere questi cinque punti di svolta e quindi di esaminare alcuni dei nostri pragmatisti professi relativamente ad essi. Se ne risultasse qualcosa di indicativo, potrebbe essere nella direzione di dirci in qual misura il pragmatismo abbia favorito il progresso dell’empirismo; ma potrebbe anche dirci in qual misura il pragmatismo fosse sulla giusta strada, seppur semplicemente come continuatore piuttosto che come innovatore. E infine potrebbe indicare in qual misura io sia un pragmatista.9

Essere pragmatisti, per Quine, non significa tanto rivendicare in modo diretto l’eredità di Peirce, James, Dewey e C.I. Lewis, quanto piuttosto riconoscere che ogni essere umano in quanto tale si trova originariamente di fronte ad una certa eredità scientifica e ad una successione senza fine di stimolazioni sensoriali. Dunque, “le considerazioni che lo guidano a piegare la sua eredità scientifica perché si adatti agli incessanti dettami dei sensi sono, se razionali, di natura pragmatica”.10 Non è il pragmatismo inteso come corrente filosofica che a Quine interessa, ma soltanto alcuni spunti che i pragmatisti offrono per il superamento della distinzione analitico/sintetico. Ma è del pari evidente che egli non può definirsi un pragmatista in senso storico, poiché molte delle tesi da questa corrente sostenute non si conciliano con il suo orizzonte concettuale. Se rammentiamo quanto s’è detto nel capitolo precedente a proposito della diffidenza di Dewey e di Mead per il formalismo della logica matematica, crediamo sia legittimo considerare Quine anti-pragmatista sotto molti – e importanti – aspetti.

Tornando a Rorty, troviamo in La filosofia e lo specchio della natura l’affermazione che il positivismo logico e, in generale, tutta la filosofia che discende dalle tesi di Russell e di Frege è, contrariamente all’opinione dei più, un movimento reazionario e non rivoluzionario. Egli sostiene infatti che la tradizione di pensiero erede di Russell e Frege, “proprio come la fenomenologia classica di Husserl, è semplicemente un ulteriore tentativo di mantenere la filosofia nella posizione in cui Kant desiderava porla: quella cioé di giudice delle altre aree della cultura, sulla base della sua speciale conoscenza dei ‘fondamenti’ di queste aree. La filosofia ‘analitica’ è una variante ulteriore della filosofia kantiana, una variante caratterizzata principalmente dal considerare la rappresentazione come linguistica piuttosto che mentale, e quindi la filosofia del linguaggio come la disciplina che esibisce i ‘fondamenti della conoscenza’, invece della ‘critica trascendentale’ o della psicologia”.11

In che modo, allora, Rorty arriva ad una riscoperta del pragmatismo che appare assai più netta e motivata di quella quineana? Ritenendo che la filosofia analitica sia ancora impegnata nella costruzione di una cornice neutrale e permanente per tutti i tipi d’indagine, egli trova invece nel pragmatismo la negazione dell’idea che vi siano condizioni non-storiche che determinano tutti gli sviluppi storici possibili. Sostiene infatti che “un modo per cogliere come la filosofia analitica si adatti al tradizionale modello cartesiano-kantiano, è quello di considerare la filosofia tradizionale come un tentativo di sfuggire alla storia (…) Da questo punto di vista il messaggio comune a Wittgenstein, Dewey e Heidegger è un messaggio storicista. Ciascuno di questi tre ci ricorda che le indagini sui fondamenti della conoscenza, della moralità o del linguaggio o della società possono costituire semplice apologetica, il tentativo di rendere eterno un certo gioco linguistico contemporaneo, una pratica sociale, una immagine di sé”.12 Dalla prospettiva rortiana, il tentativo di “sfuggire alla storia” rende qualsiasi tipo di filosofia che lo metta in pratica – ivi inclusa, a suo avviso, quella analitica – sterile. La concordanza tra Rorty e Dewey risiede quindi nel riconoscimento che anche la filosofia è parte della storia.

L’importanza delle tesi di Davidson ai fini della visione complessiva che Rorty è andato elaborando negli ultimi due decenni si può meglio comprendere prendendo in considerazione un saggio anteriore a quelli in precedenza citati. Si tratta de “Il mondo finalmente perduto”,13 nel quale il punto di riferimento è costituito dal famoso articolo di Davidson “Sull’idea stessa di schema concettuale”,14 letto da Rorty ancor prima della sua pubblicazione. Com’è noto, Davidson non considera problematica la nozione di schemi concettuali “alternativi”, ma proprio quella di schema concettuale in quanto tale. E ciò offre a Rorty l’ocasione per osservare che la nozione di schema (o schemi) concettuale ricorda assai da vicino il sistema kantiano delle categorie a priori, sistema necessario alla costituzione stessa dell’esperienza (in quanto opposta alla sua predizione e al suo controllo). Se un simile quadro concettuale davvero esistesse, esso fornirebbe delle condizioni non-storiche che ogni possibile sviluppo storico dovrebbe soddisfare, e svolgerebbe quindi il ruolo di una cornice permanente e neutrale per la ricerca (non solo scientifica).

Partendo da queste premesse occorre secondo Rorty concludere che Davidson, negando qualsiasi tipo di distinzione tra un presunto schema costitutivo ed il contenuto sensoriale della nostra esperienza, si inserisce in un filone di pensiero storicista del quale fanno parte a pieno titolo – sempre secondo la lettura rortiana, ovviamente – tanto Hegel quanto Dewey. Ma occorre rilevare ancora una volta che l’interpretazione storicista del pragmatismo fornita da Rorty, la quale viene estesa a Davidson, non trova concordi molti studiosi, tra i quali, come abbiamo visto in precedenza, Rescher.

È comunque necessario sottolineare, prescindendo momentaneamente dal contesto strettamente pragmatista, che le basi dell’elaborazione davidsoniana si trovano nelle opere di Quine e di Sellars. L’influenza di Quine è nota e avremo modo di parlarne diffusamente nel corso del nostro lavoro. Per quanto concerne Sellars, lo stesso Davidson ha spesso sottolineato che il saggio sellarsiano “Empirismo e filosofia della mente” segna un vero e proprio punto di svolta nella filosofia analitica degli ultimi decenni. Dal canto suo Rorty, notando che la filosofia analitica iniziò come una forma di empirismo, e che ai giorni nostri è invece in auge una filosofia analitica di tipo post-positivista, attribuisce all’attacco di Sellars al “mito del dato” il merito di aver distolto la filosofia analitica dagli interessi fondazionalisti del positivismo logico e di aver aiutato a sollevare dubbi sull’idea stessa di “epistemologia”, nonché sulla realtà dei problemi che i filosofi avevano fino ad allora discusso sotto quell’etichetta.15

1 È lo stesso Rorty a riportare queste frasi di Davidson nel suo articolo “Wittgenstein, Heidegger e la reificazione del linguaggio”, in R. Rorty (1993), p. 71. La citazione è tratta da D. Davidson, “Una graziosa confusione di epitaffi”, tr. it. in L. Perissinotto (1993), pp. 59-85.

2 R. Rorty (1993), pp. 71-72.

3 W.V. Quine, “Due dogmi dell’empirismo”, in W.V. Quine (1966), pp. 20-44. Si veda in particolare il paragrafo 6 del saggio summenzionato, intitolato ‘Empirismo senza dogmi’.

4 Com’è noto, neopositivismo e neoempirismo vengono per lo più identificati. Per ragioni di chiarezza, accolgo in questa sede il suggerimento di W. Salmon di riservare l’appellativo di neopositivisti ai rappresentanti del Circolo di Vienna (M. Schlick, R. Carnap, O. Neurath, H. Feigl, H. Hahn, F. Waismann, ecc.), e quello di neoempiristi ai membri del gruppo berlinese di cui facevano parte H. Reichenbach e C.G. Hempel.

5 Si veda l’intervista a Donald Davidson (“Visioni post-analitiche”) contenuta in G. Borradori (1991), pp. 47-65. La summenzionata risposta di Davidson si trova a p. 51.

6 A nostro parere, i medesimi dubbi si possono estendere anche all’interpretazione rortiana di Dewey, nonché alla caratterizzazione complessiva che Rorty offre del pragmatismo. Per critiche penetranti al modo in cui Rorty interpreta Dewey rimandiamo a I. Hacking (1987), cap. 4.

7 W.V. Quine (1996), pp. 143-144.

8 Cioé quelli elencati sopra.

9 W.V. Quine (1996), p. 143.

10 W. V. Quine (1966), p. 44.

11 R. Rorty (1986a), pp. 11-12.

12 R. Rorty (1986a), pp. 12-13.

13 R. Rorty, “Il mondo finalmente perduto”, in R. Rorty (1986b), pp. 39-51.

14 D. Davidson (1994), pp. 263-282. Una precedente versione italiana è apparsa in R. Egidi (1988), pp. 151-167.

15 R. Rorty (1990), pp. 154 e 158.

Tratto da LA VERITÀ FALLIBILE: Pragmatismo e immagine scientifica del mondo

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