Dunque siamo arrivati sani e salvi sotto le mura di Gergovia.
La fortezza occupa un bel monticello circondato da colline scoscese. È ben protetta, tanto che Cesare preferisce fermarsi a distanza di sicurezza e studiare la situazione, anche a costo di perdere il vantaggio su Vercingetorige.
In effetti, espugnare Gergovia non è roba da un assalto e via. Bisognerà andarci cauti.
Il primo passo è occupare un colle dal quale badare che in città non arrivino né acqua né cibo. Il secondo collegare questo avamposto al castra di partenza con un doppio camminamento — o fossa, che alla fine è una trincea. Il terzo ricondurre gli Edui alla causa romana (per la vicenda del loro tradimento e relativo rant c’è l’Appendice). Il quarto, rimediare al terzo.
Infatti per punire gli Edui, ribellatisi sull’onda del Perchessìnianesimo, Cesare si allontana di quasi quaranta chilometri con quattro legioni e tutta la cavalleria; nel castra principale le due legioni rimanenti si trovano a dover difendere un’area pensata per contenerne sei.
Siore e siori, il 3D. Vercingetorige è lungo le linee azzurre.
Il tribuno Fabio ha fatto tutto il possibile: ha ostruito tutte le porte inagibili, sfruttato al massimo le macchine da assedio e protetto per ore quell’impedimento di campo, per giunta continuando a fortificarlo.
Quando Cesare torna indietro capisce che non c’è verso e cerca un modo per trarsi d’impiccio prima di essere circondato dai nemici.
Il risultato delle sue elucubrazioni è un altro di quegli specchietti per le allodole in cui i Galli cascano sempre. Stavolta il diversivo è un gruppo di pastori travestiti da cavalieri, che viene mandato a farsi un giretto nel modo più chiassoso possibile.
I difensori, che da lontano vedono poco, vanno a curiosare. Uno dei loro accampamenti resta incustodito, i legionari sgusciano dal campo maggiore a quello minore e colgono di sorpresa il nemico.
Pare che la cosa sia riuscita tanto improvvisa che un capo gallo, colto nel sonno, perde il cavallo e fugge “superiore corporis parte nudata”.
Spettacoli disdicevoli a parte, è il momento di ordinare la ritirata. Cesare lo fa, ma nessuno lo sente né dà retta agli ufficiali.
Intanto i difensori più lontani dagli scontri pensano che i Romani siano arrivati in città e se la danno a gambe. Le loro donne, memori di Avarico, prendono a gettare vestiti e preziosi dalle mura, supplicando pietà.
Parecchie, aiutandosi a forza di braccia, si calavano dalle mura e si consegnavano ai soldati.
Vergogna! Sintonizzatevi su Radio Utica tra qualche anno e ve lo insegnerà Catone cosa si fa in questi casi!
Poi, a loro maggior gloria, vedono che gli uomini stanno risolvendo il problema e diventano più spavalde: si sciolgono i capelli (la dissolutezza ha radici millenarie!), mostrano i figli ai legionari.
È un disastro, per i Romani. In pochi, su terreno sfavorevole, sfiancati dalla corsa, non perdono la posizione sulle mura solo grazie alla copertura delle coorti lasciate in riserva al campo minore.
Cesare non può che aspettare un’occasione. Solo la Decima, la legione più vicina, gli è rimasta accanto secondo gli ordini.
E poi arrivano gli Edui.
In quanto cavalieri, erano stati mandati a fare un lungo giro insieme al diversivo, giusto per non avere degli alleati infidi nel mezzo dello scontro. Adesso accorrono al fianco dei Romani ma, per quanto le loro spalle destre nude simboleggino la loro sottomissione a Roma, i legionari pensano all’ennesimo tradimento e iniziano a cedere terreno. La follia generale raggiunge livelli tali che i soldati in posizione più avanzata si sacrificano per coprire la ritirata.
In tutto ciò muoiono quarantasei centurioni e settecento soldati semplici. Non di più solo perché le Decima e le coorti di prima intralciano l’inseguimento finale.
Il giorno dopo tocca a Cesare fare una lavata di capo ai suoi.
Egli ammirava il coraggio che avevano dimostrato nel non lasciarsi fermare né dalle fortificazioni, né dall’asprezza del monte, né dal muro della città, ma altrettanto biasimava il presuntuoso arbitrio per cui avevano creduto di poter giudicare meglio del loro comandante sulla vittoria e sull’esito delle operazioni; egli pretendeva dai suoi soldati obbedienza e disciplina non meno che coraggio e sprezzo del pericolo.
Poi, per risollevare il morale, si schiera a battaglia in un punto favorevole, consapevole del fatto che Vercingetorige non si lascerà provocare a uno scontro campale. Non gli conviene, adesso che ha scoperto quanto sia duro per il nemico questo assedio.
Infatti dopo qualche giorno i Romani levano le tende e si mettono in marcia verso Novioduno, nelle terre degli Edui. Lì abbiamo lasciato armi e bagagli, ostaggi, viveri, danaro, cavalli.
Uno dei capi della ribellione, Litavicco, è ancora a piede libero con un contingente di cavalleria. Due suoi complici, Eporedorige e Viridomaro, rubano le salmerie e lo raggiungono a Bibracte.
Di male in peggio, ora bisogna anche preoccuparsi di non restare a secco. Che si fa?
Di tornare in Provincia non se ne parla — sarebbe disonorevole e non si può lasciare Labieno da solo con quattro legioni. Quindi tanto vale andargli incontro.
Sono passati anni dall’ultima volta che abbiamo visto Cesare e Labieno insieme, con l’esercito al gran completo. Per me è il momento più epico dei Commentari.
Adesso tutto si può fare. Questione di un attimo è attirare in trappola Vercingetorige, molto preoccupato da questi movimenti, con uno scontro di cavalleria.
I Germani compiono la loro missione di vita e fanno una strage — tremila morti, a fine giornata. Vercingetorige capisce di doversi ritirare e, proprio come ad Avarico, sceglie male.
Alesia.
L’assedio merita un articolo a sé, perché è un piccolo capolavoro. Anche i Galli si riscattano un pochino, per dire.
Un lieto fine, narrato da un Cesare così orgoglioso che il suo stile è spoglio come mai prima d’ora: i Romani che vincono e potrebbero annientare del tutto il nemico, ma sono così stremati che nemmeno sette anni di marce forzate attraverso metri di neve, col rancio non sempre garantito e migliaia di compagni morti li spingono all’inseguimento; i prigionieri dati in schiavitù ai soldati stessi, uno ciascuno; l’organizzazione per passare un inverno confortevole a Bibracte.
Ah, e la restituzione di tutti gli ostaggi accumulati dal 58. Indovinate quanti sono? Ventimila! C’è da chiedersi come li abbiano sfamati.
Ad ogni modo, la guerra è finita così, con la cattura di Vercingetorige. Per il 51 resta solo da fare un po’ di pulizia etnica.
Il De Bello Gallico, dal canto suo, continuerà a comparire un po’ ovunque, su questi lidi. Quindi niente titoli di coda.
Appendice I – Deprecazione degli Edui
Perché gli Edui dovevano chiedere a Cesare di essere giudice della loro costituzione e delle loro leggi, e non i Romani agli Edui?
Perché la Terra gira attorno al Sole?
Teorie eretiche a parte, mentre Cesare fa la corte a Gergovia Convictolitave, re fresco di nomina, decide che il favore di Roma non gli serve più.
Ha una sola idea per portare il popolo dalla sua…
A cinquanta chilometri da Gergovia, Litavicco, capo dei rinforzi richiesti, inizia una scenata: piange, racconta ai suoi di come i Romani gli abbiano ammazzato fratelli e parenti e presenta dei falsi testimoni. Questi a loro volta annunciano che i Romani, per ritorsione contro il recente tradimento, hanno fatto strage di ogni eduo a tiro.
Panico. I soldati acconsentono a passare dalla parte dei difensori e passano a fil di spada i cittadini romani – perché ci sono sempre dei cittadini pronti da ammazzare per dichiarare guerra! – che confidavano nella loro protezione per arrivare non si sa dove e, soprattutto, a far che. C’è la guerra, ragazzi.
In realtà i fratelli di Litavicco stanno benissimo, sono a Gergovia e pregano Cesare di non lasciare che il loro popolo segua la via della perdizione.
Lieto fine anche qui: basta mostrare che non è morto nessuno per ottenere la resa dei rinforzi e la fuga di Litavicco.
Ora, gli Edui sono forse il peggior popolo che mi sia capitato d’incontrare. Tradiscono chiunque in qualunque momento, meglio se ciò comporta danni solo per loro. E sì che da quando Cesare è in Gallia si espandono a danno dei vinti, i fetenti.
Deboli, volubili e stupidi, non ne combinano una buona nemmeno per sbaglio.
Appendice II — Le prodezze di Labieno
Io finora l’ho del tutto ignorato, ma Tito Labieno è un fior di comandante. In tutti questi anni ha condotto una guerra a parte, gestendo mezzo esercito senza l’aiuto di Cesare. In effetti, è l’unico legato che non abbia mai mandato un SOS alla mamma e l’abbia spuntata.
Per esempio, quando il piccolo Cicerone era alle strette coi Germani e il Divo ha dovuto mobilitare altri tre legati per raggiungerlo in tempo, anche Labieno era assediato da forze preponderanti, ma ha stretto i denti.
Anche nel Libro Settimo dimostra il suo valore, sospetto con disappunto di Cesare — alla fine, non è curioso che un legato di tali qualità sia stato impiegato solo per tenere sotto controllo qualche popolo focoso, invece che per dare manforte al generale?
Prima del ricongiungimento col resto dell’esercito, il nostro si trovava ad Agedinco con quattro legioni.
Campagna del 52. Agedinco è a due passi da Alesia e Cenabo.
Il suo stile, di base, è la ‘toccata e fuga’: azioni di piccola portata a breve raggio e ritorno al campo.
Nel momento in cui Cesare attraversa la Loira con l’acqua fino alle ascelle per trovare un po’ di grano e raggiungerlo, lui si concede un assedio Lutetia, “città dei Parisii situata su un’isola della Senna”.
La futura capitale francese è protetta da un esercito raccogliticcio. Il vecchio capo, Camulogeno, lo dispone nella palude che blocca l’accesso all’intera regione.
In puro stile cesariano, il primo tentativo di Labieno implica le macchine da assedio e le opere del genio per rendere agibile la palude. Solo che queste cose vanno sempre per le lunghe, e non c’è tempo da perdere.
Labieno è vulnerabile: con sé ha solo reclute e sempre più popoli stanno prendendo le armi.
Senza contare che tutta la Gallia ha gli occhi su di lui, ora che Cesare gli sta venendo incontro: non sarebbe male addentarlo mentre è isolato.
La notte stessa il legato attraversa la Senna in corrispondenza di un’altra isola, disabitata perché gli uomini sono in guerra altrove, e arriva a Lutetia dalla sponda opposta.
I difensori le danno fuoco e vedono di mettere l’intero fiume tra sé e i Romani.
A questo punto giunge la notizia del tradimento dei Bellovaci, finora amici buoni quanto gli Edui.
Bisogna darci un taglio e tornare ad Agedinco prima possibile.
Divide l’esercito in tre: mezza legione resta all’accampamento, mezza avanza di qualche chilometro via nave, le restanti tre ammazzano gli esploratori nemici e attraversano il fiume.
All’alba, i Galli sentono chiasso in tre direzioni distinte, pensano che Labieno abbia dichiarato il si salvi chi può e si dividono a loro volta in tre parti.
E così Labieno riesce a ingurgitarle una alla volta: prima quella destinata specificamente a lui, poi quella rimasta a difendere il campo e accorsa in ritardo, infine quella che seguiva gli spostamenti della mezza legione nel fiume.
Non ne scappa uno, dalle vedette a Camulogeno.
E poi via ad Agedinco, come se non ne fosse mai uscito.
Appendice III – Angolo “Chi l’ha visto?”
Vi ricordate Ambiorige, quello che mentre Cesare se la spassa in Britannia ammazza le legioni di Sabino e Cotta? Quello cui Cesare dà la caccia per tutta Gallia, invano?
Be’, resta non pervenuto. Eccone un altro che, come Annibale, dopo aver sparato le cartucce migliori precipita in un buco nero.
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Fine seconda parte del Libro Settimo: assedio di Gergovia, premesse all’assedio di Alesia e fallimento di Vercingetorige.
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