De Henriquez, un caso irrisolto

Creato il 01 luglio 2013 da Antoniopechiar @antoniopechiar

Diego de Henriquez con uno dei suoi cannoni bellici

Lo studioso e collezionista triestino Diego de Henriquez nacque a Trieste il 20 febbraio 1909 da una famiglia di ascendenza nobiliare spagnola legata alla Marina Imperiale Asburgica. Fin da bambino iniziò a mostrare un grande interesse per i numerosi cimeli bellici della Prima Guerra Mondiale che trovava durante le passeggiate sul Carso. Durante la sua gioventù visse in diverse province dell’Impero, ma i suoi studi lo riportarono di nuovo a Trieste, dove si diplomò all’Istituto Nautico nel 1928. Nel 1941 venne richiamato alle armi, e de Henriquez, che era ufficiale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (cioè le cosiddette “Camicie Nere”), si rifiutò di prendere servizio attivo; fu quindi inquadrato come soldato semplice nella Guardia alla frontiera e, tramite l’interessamento di un ufficiale suo amico, gli fu dato l’incarico di coordinare il museo militare. Gli furono dati il grado di sergente e fu autorizzato a muoversi in tutta la regione militare Nord-est per reperire materiale e documentazione. Egli poté così creare una collezione fino a quel tempo unica di armi, divise, materiale bellico e documentaristico.

La sua collezione di cimeli bellici venne ampliata, durante l’occupazione nazista, con l’acquisizione di materiale tedesco, attraverso permessi e addirittura fondi dalla FeldKommandatur tedesca per il suo museo. Durante la liberazione di Trieste da parte delle truppe alleate, si recò di persona a trattare con l’ultimo gerarca nazista asserragliato nel Palazzo di Giustizia di Trieste con le sue truppe, e ne uscì vincitore: in una clausola della resa era infatti specificato che le armi tedesche venissero affidate al suo museo. (La leggenda afferma che, oltre le armi, de Henriquez si fosse fatto consegnare anche la giacca della divisa dell’ufficiale tedesco, visto che a lui non serviva più).

Un carro armato della sua collezione

Quando, nel 1954, la città venne consegnata all’Italia, gran parte dei documenti raccolti dagli alleati finirono nella sua collezione. Si stima che, alla fine degli anni Sessanta, questo patrimonio storico fosse superiore ai 30 miliardi di lire!

Nel 1969 il Comune di Trieste e l’Assessorato alla Cultura decisero di promuovere la costituzione di un museo civico, ma questo progetto si realizzò dopo la morte del suo ideatore: Diego de Henriquez morì in circostanze misteriose il 2 maggio 1974, durante un incendio notturno sviluppatosi nel magazzino di via San Maurizio 13, sede del suo Museo Storico di Guerra, assieme ad una buona parte della sua collezione. Un particolare macabro, che colpì l’opinione pubblica, era che lo studioso dormiva in una bara: qualcuno sostenne che era il suo modo per dichiarare di essere sempre pronto a morire; altri sostennero che la bara, essendo imbottita, era il posto più caldo dove dormire in quel magazzino umido e privo di riscaldamento. Ma le indagini sulla sua morte non furono molto accurate: l’autopsia fu effettuata appena sette mesi dopo la morte, che fu comunque archiviata come “accidentale”. Nel 1988 un Capitano dei Carabinieri che indagava su un’altra morte sospetta, riaprì le indagini sulla morte di de Henriquez e scoprì che l’incendio era stato doloso. Fu poco dopo trasferito in un’altra città. Il figlio di de Henriquez, Alfonso, sostenne che molto probabilmente il padre aveva scoperto dei ladri che cercavano di mettere le mani sul suo archivio, e che fu ucciso per impedirgli di parlare.

Diego de Henriquez, nella sua lunga vita di collezionista iniziata ancora prima del secondo conflitto mondiale, raccolse anche un’infinità di documenti di argomento storico e trascrisse, in una infinità di diari, tra il 1941 e il 1974, le testimonianze che raccoglieva dalle persone con le quali parlava ma anche le scritte murali che lo colpivano. Non potendo fotografare a causa della scarsità di luce, il collezionista passò intere giornate e nottate, al lume di candela, a copiare tutte le scritte lasciate dai prigionieri sui muri delle celle della Risiera di San Sabba prima che venissero cancellate, poiché (così si dice) riportavano anche nomi di collaborazionisti triestini.

Le scritte trovate sui muri della Risiera

Era sempre presente sulla scena degli avvenimenti cittadini, e nulla di quanto gli accadeva intorno poteva sfuggire alla sua penna: la registrazione giornaliera di tutto ciò che vedeva e sentiva, divenne una pratica esistenziale che lo portò fino all’ultimo dei suoi giorni a riempire decine di migliaia di pagine con cronache, osservazioni, interviste. E fotografie.

Alcuni diari si salvarono dal rogo e vennero utilizzati per inchieste giudiziarie di vario genere. Per esempio, il giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni, ne utilizzò 354 nell’inchiesta su Argo 16 (l’aereo militare precipitato nel 1974 in circostanze sospette). In seguito questi diari furono restituiti al figlio dello studioso (oggi anch’egli deceduto), che ne fece dono ai Civici musei di Trieste.


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