“La materia di un corpo qualunque, contiene in se stessa una somma di energia rappresentata dall’intera massa del corpo, che si muovesse tutta unita ed in blocco nello spazio, colla medesima velocità delle singole particelle. [...] La formula mv2 ci dà la forza viva e la formula mv2/8338 ci dà, espressa in calorie, tale energia. Dato adunque m=1 e v uguale a 300 milioni di metri [al secondo], che sarebbe la velocità della luce, ammessa anche per l’etere, ciascuno potrà vedere che si ottiene una quantità di calorie rappresentata da 10794 seguito da 9 zeri e cioè oltre dieci milioni di milioni” (pp. 458-459).
Per comprendere precisamente l’affermazione dell’autore, bisogna andare ad analizzare quel coefficiente 8338, che compare in una frazione al cui numeratore è presente proprio la famosa espressione mc2 (De Pretto, come del resto Einstein nel 1905, usa la lettera v al posto della c per indicare i ben noti 300 milioni di metri al secondo), che viene detta correttamente “forza viva”, secondo una vecchia denominazione che risale ai tempi di Leibniz, e non “energia”, ed è quella che determina comunque l’enorme quantità di energia di cui si sta congetturando l’esistenza. Per offrirne un’immagine suggestiva, che fosse cioè più praticamente apprezzabile, De Pretto presenta tale grandezza fisica (corrispondentemente all’unità di massa) calcolandola in calorie, ossia l’unità di misura dell’energia che si utilizza in termodinamica. Data una certa quantità di energia, espressa per esempio in Joule nell’ordinario sistema di misura MKSQ, per trovare a quante calorie corrisponda bisogna introdurre un opportuno “coefficiente di trasformazione”, che si chiama l’equivalente meccanico della caloria. Esso viene approssimativamente stimato oggi (nel menzionato sistema MKSQ) con 4186, mentre De Pretto si serve del valore 4169, perché alla fine dell’Ottocento tale costante era in effetti valutata in maniera differente (un piccolo errore in percentuale che fu aggiustato soltanto in seguito). Nel rapporto che stiamo discutendo non appare però, attualizzandolo un poco, mc2/4196, bensì mc2 diviso il doppio di 4169, tale è infatti l’altrimenti “misterioso” coefficiente 8338. Che significato ha tutto ciò? Che De Pretto calcola giustamente, in calorie, non l’energia corrispondente alla forza viva mc2, ma quella corrispondente alla metà di tale fattore. Ovvero, egli valuta l’energia cinetica mc2/2, sicché potrebbe asserirsi che ipotizzi un’energia latente nella materia pari soltanto alla metà di quella prevista dalla teoria della relatività (e poi riconosciuta davvero esistente, almeno quanto a “ordine di grandezza”; chissà se poi si può essere del tutto sicuri che sia esatta una formula e non l’altra). In ogni caso, De Pretto prevede una quantità di energia inaspettata e spaventosamente grande, solo questo gli premeva di mettere in evidenza nel suo saggio (lo scienziato peraltro ritorna presto sull’argomento, per argomentare come la sua stima potrebbe in effetti modificarsi, sia in difetto che in eccesso), d’onde si può affermare con assoluta certezza l’equivalenza “qualitativa” delle due concezioni, mentre da un punto di vista “quantitativo” esse dovrebbero ritenersi soltanto proporzionali. Del resto, laddove nella teoria della relatività l’equazione in esame ha una “spiegazione” che ci sembra esclusivamente “formale”, nel quadro concettuale dell’etere di De Pretto essa riceve al contrario una chiara motivazione fisica, del tutto “intuibile” secondo gli usuali canoni della “razionalità ordinaria”, senza fare ricorso a sofisticate strutture matematiche.
Questa ipotesi viene avanzata dal De Pretto sulla base della concezione di un etere costituito da tante “particelle piccolissime”, che potremmo dire delle “monadi” d’etere (sarebbero soltanto questi i veri e propri atomi, nel senso letterale del termine), che vibrano incessantemente ad un’alta velocità propria (quella della luce, per l’appunto). Esse sono presenti dappertutto nello spazio dell’universo, e soggette ad un “continuo movimento vibratorio rapidissimo”, per effetto degli urti che si susseguono delle une con le altre. Con questo modello nella mente il De Pretto, un po’ alla maniera del francese Lesage, menzionatogli dal promotore della pubblicazione del suo scritto a cose ormai fatte, cerca prima di dare un meccanismo causale per la gravitazione (le monadi d’etere non sono soggette alla gravitazione, ma ne sarebbero viceversa la causa con i loro urti), e viene successivamente condotto alla formulazione dell’equazione in esame, attraverso la concezione di una particella di materia come un agglomerato di monadi d’etere, ancora in “rapidissimo perenne movimento”, ma costrette a restare intorno ad un punto d’equilibrio (senza però chiarire se si debba arrivare a concepire adesso il loro movimento come circolare, o ancora sempre vibratorio, ma con brevissimo raggio di escursione). Sta di fatto che su questa base arriva all’ipotesi che abbiamo già menzionato, e riesce anche ad esprimerla in una precisa forma quantitativa (senza dire che, dal punto di vista del De Pretto, avrebbe senso forse anche di parlare di energia dello “spazio vuoto”, concetto che svolge un ruolo importante nella moderna fisica quantistica). Che questa conclusione dovesse sembrare all’epoca incredibile, e completamente al di fuori delle conoscenze fisiche del tempo, appare all’autore subito chiaro, visto che questi aggiunge subito al calcolo precedente il seguente commento:
“A quale risultato spaventoso ci ha mai condotto il nostro ragionamento? Nessuno vorrà facilmente ammettere che immagazzinata ed allo stato latente, in un chilogrammo di materia qualunque, completamente nascosta a tutte le nostre investigazioni, si celi una tale somma di energia, equivalente alla quantità che si può svolgere da milioni e milioni di chilogrammi di carbone; l’idea sarà senz’altro giudicata da pazzi” (p. 459).
Ed in effetti, l’autore da “pazzo”, o quanto meno da sprovveduto, era forse già stato considerato, e probabilmente anche da diverso tempo. Un forte argomento a favore della nostra ricostruzione della vicenda De Pretto, Besso, Einstein, è in effetti la circostanza che una Memoria come quella del 1903 non si prepara in poco tempo, e che il De Pretto era evidentemente da anni arrivato alle conclusioni, almeno allo stato embrionale, che vennero poi raccolte in quello scritto, come le seguenti parole premesse al suo lavoro suggeriscono:
“La presente Memoria, per le ardite ipotesi che contiene, era destinata forse a rimanere inedita; il nome oscuro dell’autore, non dava alla stessa sufficiente credito” (p. 439).
Segue un ringraziamento al Conte Almerico Da Schio “che tanto benevolmente volle appoggiarmi”, ma soprattutto all’”Illustre Astronomo Schiaparelli”, del quale ultimo viene in effetti pubblicata in calce alla memoria del De Pretto una lettera, del Giugno 1903, nella quale si dimostra una del tutto rara apertura mentale nel giudicare di cose scientifiche. Questi infatti, pur non considerando definitive le ipotesi del De Pretto, rileva i giusti meriti del lavoro e l’opportunità di una sua divulgazione con le seguenti parole, che possono essere ancora oggi proposte all’attenzione dei tanti affrettati ‘censori’ operanti nelle redazioni delle varie riviste scientifiche (vedi anche il successivo capitolo 7):
“Insomma: se sarebbe troppo il dire, ch’Ella ha spiegato le cose come stanno, proprio come stanno, mi pare tuttavia di non eccedere la giusta misura dicendo che Ella ha aperto al nostro sguardo nuove possibilità, la cui considerazione deve essere sufficiente a moderare il tono dogmatico, con cui diversi scienziati, anche di gran vaglia, hanno parlato e vanno parlando” (p. 500).
Ma torniamo al De Pretto il quale, dopo aver accennato come abbiamo visto ai suoi problemi relativi all’etichetta di “pazzo”, si dichiara subito eventualmente disposto ad una riduzione della quantità di energia prevista, ma non all’aspetto qualitativo delle sue considerazioni:
“Sia comunque, si riduca quanto si vuole il risultato a cui fummo condotti dal nostro calcolo, è pur forza ammettere che nell’interno della materia, deve trovarsi immagazzinata tale somma di energia da colpire qualunque immaginazione” (p. 459).
Questa possibile “riduzione” è da collegarsi al fatto che la velocità v nella equazione del De Pretto è invero soltanto la (sconosciuta) velocità di vibrazione delle particelle d’etere, che viene ammessa pari a quella della luce solo ipoteticamente, ma è in realtà suscettibile tanto di essere più alta di quest’ultima, come lo stesso autore argomenta in altro luogo:
“La velocità di propagazione di tali vibrazioni, deve essere certamente almeno uguale a quella della luce [...] quando non sia anche superiore” (pp. 446-447);
e, potrebbe aggiungersi, quanto possibilmente anche minore, eventualità alla quale sembrerebbe alludersi nel passo già citato (p. 459), ma soltanto allo scopo di cercare di ridurre l’incredulità che la sua fantastica ipotesi aveva evidentemente sempre incontrato presso le persone cui aveva parlato delle sue ‘intuizioni’.
Chi era dunque questo Olinto De Pretto, capace di intuizioni tanto ardite e profetiche, ma che parla di se stesso come di un “oscuro autore”?
In verità, non si tratta di un personaggio proprio tanto trascurabile nel panorama scientifico del suo tempo e del suo paese, tanto più se lo si valuta, piuttosto che sotto l’aspetto accademico della pura produzione scientifica (pure non assente), sotto quello delle applicazioni pratiche della scienza alla tecnica (a proposito di maggiori informazioni sulla vita del De Pretto, vedi la Nota Biografica compilata da una diretta discendente di Silvio De Pretto, fratello di Olinto, nel successivo capitolo 7).
Olinto De Pretto nacque a Schio, in provincia di Vicenza, il 26 Aprile 1857, sesto di sette figli, da un architetto che era dedito anche a ricerche di astronomia e di geologia. Pietro De Pretto, così si chiamava il padre di Olinto, architetto presso il Comune di Schio, collezionò, con il fratello Michele, geologo, minerali e rocce, la cui raccolta fu poi donata al Museo di Mineralogia dell’Università di Padova. Dopo studi liceali compiuti a Padova, Olinto De Pretto si laureò in Agraria presso l’Università di Milano, dove fu assistente del Prof. Gaetano Cantoni alla Scuola Superiore di Agricoltura. Dalla corrispondenza di questo periodo con il fratello maggiore Silvio, un ingegnere di cui avremo modo di riparlare, siamo messi al corrente dell’inclinazione del De Pretto per le applicazioni tecniche delle conoscenze scientifiche, non disgiunta però da una certa inventiva teorica, che lo porta a formulare ipotesi del tutto nuove ed arrischiate, come egli stesso le definisce. Il fratello Silvio, con altri componenti della famiglia, era stato fondatore a Schio di un’officina meccanica che assunse ben presto le dimensioni di un’importante industria, grazie anche alle capacità tecnico-scientifiche che i De Pretto seppero impiegarvi. Lasciato il lavoro all’Università di Milano intorno al 1886 per rivestire la carica di Direttore Amministrativo della Fonderia De Pretto, posizione che occupò peraltro fino alla fusione, avvenuta nel 1920, dell’industria veneta con la svizzera Escher Wyss, il De Pretto continuò ad alternare, anche se in diversa misura, studi di interesse pratico con studi teorici fino alla morte, avvenuta nel 1921, proprio quando usciva il suo libro Lo spirito dell’universo (Biblioteca di Scienze Moderne, F.lli Bocca Ed., Torino), nel quale riprendeva e rielaborava i temi già contenuti nella memoria del 1904. Le sue pubblicazioni scientifiche furono nel complesso non numerose, e riguardanti soprattutto argomenti di geologia (il loro elenco è contenuto in calce al presente capitolo), a testimonianza di un maggiore interesse per l’attività pratica, per la quale divenne del resto un personaggio ben conosciuto nel Veneto dei primi anni del `900: costruzione di alberghi, fondazione di scuole professionali, partecipazione a Società quali la Società Elettrica, la Società Esercizi Pubblici, e perfino la partecipazione finanziaria alla costruzione e alla gestione della prima aeronave italiana, progettata dal conte Almerico da Schio (lo stesso che presentò la memoria del De Pretto al Reale Istituto Veneto). Anche le sue concezioni teoriche finirono per trovare qualche istante di popolarità, attraverso il famoso scrittore Sem Benelli, autore tra l’altro de “La cena delle beffe”, il quale compose nel 1927 un dramma dal titolo Con le stelle (F.lli Treves Ed., Milano), in cui venivano riprese alcune delle tematiche conformi alla visione del mondo illustrata dal De Pretto. Possiamo al proposito ricordare che in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 22.2.1927, in occasione della imminente “prima” del dramma di Benelli presso il Teatro Manzoni di Milano (con la Compagnia di Dario Niccodemi), nel presentare il suo dramma l’autore fa esplicito riferimento a Olinto De Pretto (che dice “sconosciuto quasi agli italiani”) ed alle sue concezioni fisiche, le quali avrebbero “richiamato senza volere l’attenzione, di chi indaga il mistero dell’essere, sull’infinitamente piccolo”.
Per concludere questo capitolo, possiamo dire che il De Pretto rimase, nonostante tutto il suo fervore di attività, sempre fedele alle teorie che lo avevano portato al lavoro del 1904, tanto che ancora circa venti anni dopo, e proprio nel momento della morte, dava alle stampe un libro in cui le riproponeva ed estendeva. Strano però che in tale libro il nome di Einstein non sia mai citato, e che nessuna pretesa di priorità vi venga avanzata, sia pure in modo ‘ingenuo’, rispetto all’equazione oggetto della nostra indagine. Prova del fatto che De Pretto era in fondo un personaggio isolato dal mondo scientifico internazionale, e non al corrente dei più attuali sviluppi e successi delle scienze fisiche, o della circostanza che Einstein non era diventato ancora così indiscutibilmente ‘autorevole’, almeno nel nostro paese?
In realtà, se in effetti, come abbiamo già detto, solo nel 1922 veniva conferito ad Einstein il premio Nobel, le osservazioni compiute da Eddington durante l’eclisse di sole del 1919 furono però diffuse con molto clamore e pubblicità sulla stampa internazionale, e De Pretto avrebbe dovuto averne almeno qualche sentore. Va riconosciuto d’altro canto che, sotto il profilo più propriamente scientifico, anche se sin dal 1912 l’influente Tullio Levi Civita si era per così dire ‘convertito’ alle nuove idee relativistiche, dopo un inizio non certo favorevole ad esse (che aveva addirittura definite un “baraccamento provvisorio”), trascinando quindi con sé gran parte dell’ambiente fisico-matematico italiano (come spesso succede), fu proprio solo in quegli anni che comparvero in Italia i primi libri che esponevano i principi relativistici. Roberto Marcolongo, Relatività, Messina, esce nel 1921; Guido Castelnuovo, Spazio e tempo secondo le vedute di A. Einstein, Bologna, già menzionato, esce nel 1923; mentre è del 1924 il testo di Paolo Straneo, Teoria della relatività – Saggio di una esposizione secondo il senso fisico, Roma.
Resta comunque il fatto che, quando nel 1931, a dieci anni dalla morte del fratello, l’ingegnere Silvio De Pretto tentò di valorizzare il lavoro del congiunto con uno studio relativo a Lo spirito dell’universo, trovò un ambiente ormai assai poco disposto ad accettare argomentazioni basate sulla fisica dell’etere, le cui fortune erano ormai nettamente in declino. Si trovano in appunti di Silvio De Pretto accenni a due lettere, andate purtroppo perdute, di Pio Emanuelli, astronomo della Specola Vaticana, il quale, essendo stato richiesto di un parere in merito all’eventuale pubblicazione dello studio in oggetto, si esprime in modo assai negativo con le seguenti parole: “Che se ne conosce dell’etere: esiste o non esiste? e che rapporti ha con la materia? Se ben mi appongo, i fisici sembrano del parere che l’etere non esista, o, almeno sono più propensi per l’inesistenza che per l’esistenza. Lo stato della fisica odierna [...] non ha nulla a che vedere con lo stato della fisica ai tempi dello Schiaparelli” (lettera del 12.4.1931).
E’ curioso osservare che proprio da parte diciamo così cattolica, ieri come oggi, provengono diversi importanti sostegni alla teoria della relatività, ed alla derivata teoria del big-bang, come se in queste teorie fosse più facile inquadrare eventi come la “creazione”, o la possibile conoscenza del futuro, che nel trattamento einsteiniano coesiste con il passato ed il presente in un’unica trama spazio-temporale. Siffatti atteggiamenti dimenticano però la circostanza poco trascurabile che le categorie mentali dell’essere umano escono irrimediabilmente diminuite dalle teorie relativistiche, con qualche conseguente problema, di quelli che aveva già avuto modo di prendere in considerazione Cartesio (che li risolveva naturalmente in tutt’altro modo) in ordine alla ‘benevolenza’ eventualmente così dimostrata dal Creatore alla sua Creatura, dotandola di mezzi per interpretare la realtà tanto palesemente insufficienti. Ma può darsi anche che piaccia di più ad alcuni fisici cattolici l’aspetto quasi religioso, nel senso di ammantato di ‘mistero’, della nuova incomprensibile scienza, con la conseguente edificazione di una novella casta sacerdotale (per la quale la matematica prende il posto del vecchio latino nel tenere lontana la maggior parte dei fedeli da un’autentica e profonda comprensione dei diversi sacri misteri). E questo autore non sa resistere ad esprimere il proprio rammarico perché siffatte auspicabili ‘convergenze’ (anche se bisognerebbe interrogarsi su quanto esse siano veramente possibili, e non frutto di compromessi di tipo politico) avvengano piuttosto sul piano del buio e del mistero, che non su quello della luce e della chiarezza.
Fatto sta che lo scritto che Silvio De Pretto aveva preparato non venne mai pubblicato (il relativo manoscritto andò successivamente perduto), e che sull’intera questione scese l’ancora più polveroso silenzio che ricopre ogni storia dei vinti.
Olinto De Pretto e Michele Besso
Detto quindi così succintamente del De Pretto e del suo ruolo niente affatto marginale nella vita pubblica del suo tempo e della sua regione, introduciamo l’altro più noto ed importante personaggio della nostra storia alternativa, che pure nel Veneto ed in quegli stessi anni ebbe ad operare, Michele Besso.
In ogni caso, l’ipotesi di un contatto diretto tra De Pretto, o almeno tra le sue concezioni ed Albert Einstein, non è impossibile da sostenere, e non in contrasto con quanto asserito nel precedente capitolo 4 a proposito del carattere ‘tardivo’ della nota B. Ciò dimostrerebbe soltanto che, se pure Einstein avesse sentito parlare da sé delle ardite ipotesi dello scienziato di Schio, non era comunque così persuaso della loro fondatezza quando si accingeva alla redazione di A, tanto da non farne in quella sede alcun cenno. In questo caso, qualcosa deve essere intervenuta successivamente a fargli cambiare idea, e potrebbe anche trattarsi di discussioni con qualcuno meno scettico di lui sul possibile valore di certe idee, il che ci riporterebbe comunque direttamente alla linea di argomentazione principale qui seguita. Per arricchire il possibile quadro interpretativo diciamo lo stesso che non possono essere dimenticati i legami che al tempo Einstein aveva con l’Italia, ed in particolare proprio con la Lombardia ed il Veneto. Di fatto, il giovane Albert venne più volte nel nostro paese, da quando la sua famiglia vi si trasferì definitivamente nel 1894, e negli anni successivi accompagnò spesso in viaggio il padre Hermann per motivi di lavoro. Informiamo che si trova ancora oggi a Pavia una casa della famiglia di Einstein, una cui foto è pubblicata nell’assai interessante ed originale libro di L. Pyenson già citato. Il padre di Einstein, che morì a Milano nel 1902, si occupava proprio di impianti elettrici, è bene ricordarlo nel nostro contesto, e come Direttore della Privilegiata Impresa Elettrica Einstein fu concessionario dei lavori di installazione della luce pubblica in alcuni comuni del Veronese ed in altre parti del Veneto. Ancora una volta ‘coincidenze’ significative di luoghi e di tempi, dal momento che per produrre energia elettrica ci vogliono turbine, e che la Fonderia De Pretto era tra le poche aziende italiane che ne producevano. Inoltre, si noti, Schio è molto vicina pure a Verona!
Sotto questo aspetto, non bisognerebbe poi neppure dimenticare i frequenti contatti della famiglia De Pretto con la Svizzera. In questo paese risiedeva, e proprio a Zurigo, la Escher Wyss, con la quale, seppure solo nel 1920, la Fonderia De Pretto si fuse – il relativo stabilimento è ancor oggi in funzione a Schio – ma i contatti tra le due società esistevano certamente già da molto tempo prima (notiamo che la Escher Wyss era sorta addirittura nel 1805). Né bisognerebbe poi trascurare, ancora a proposito del legame De Pretto-Svizzera – che appare particolarmente interessante per il fatto che Einstein era, prima di diventare il fisico più famoso del mondo, soltanto un “oscuro impiegato dell’Ufficio dei brevetti di Berna”[1] – neanche la circostanza che la famiglia De Pretto era stata depositaria di brevetti internazionali relativi alle proprie attività industriali, ma, in assenza di altri riscontri[2], tutte queste sarebbero illazioni molto più esili di quelle che invece esamineremo in questo capitolo.
Venendo a Michele Besso, diciamo che egli nacque a Trieste, nel 1873, da famiglia assai agiata ed importante[3]. Marco Besso, zio di Michele, fu Presidente delle “Assicurazioni Generali”, fondate nel 1831 da Vitale Beniamino Cusin, padre della moglie del nonno di Michele, Salvatore Besso. Sono ancora oggi attive a Roma due fondazioni Besso, una dedicata ad Ernesta Besso, moglie di questo Marco, e l’altra proprio allo stesso Marco. Si può poi ricordare che un altro degli zii di Michele, Davide Besso (1845-1906), fu negli anni chiave della nostra storia un matematico di primo piano nell’ambiente italiano, tanto da essere stato tra i fondatori del famoso Periodico di Matematiche, ed anche quest’ultima circostanza potrebbe avvalorare di più la nostra ipotesi di una conoscenza da parte di qualcuno almeno dei Besso del lavoro di De Pretto, qualora si rifletta sulla circostanza che a quel tempo non erano certo troppe le riviste scientifiche, né eccessivo il numero dei lavori che vi si pubblicavano, oltre al fatto che la differenza tra matematici e fisici era meno marcata che non ai nostri giorni. Di un altro degli zii di Michele, Beniamino Besso, più importante per i nostri scopi, diremo presto.
Di quegli anni famosi trascorsi fianco a fianco con quello che diventerà uno dei più celebri scienziati di tutti i tempi non rimangono grandi tracce scritte, se non qualche ricordo molto posteriore dei protagonisti, proprio perché la vicinanza tra i due uomini fa sì che la corrispondenza tra i due, in altri periodi assai nutrita, presenti in questa fase una ovvia lacuna.
Quali in effetti le ragioni – che probabilmente resteranno comunque sempre allo stadio di ipotesi, mancando ogni documentazione scritta al riguardo – le quali spingono a ritenere assai verosimile una conoscenza, se non proprio tra le persone, quanto meno dell’articolo del De Pretto da parte di Besso? Basterebbe, per formarsi tale persuasione, ricordare un attimo i tempi e i luoghi nei quali si trovarono a vivere gli attori di questa storia, così come li abbiamo precedentemente descritti. Si sa ad esempio di periodi di vacanza nei quali si avvicinarono le varie famiglie protagoniste della nostra storia nei dintorni di Garda, vicino a Verona, ma ci sembrerebbe già sufficiente sottolineare la sola circostanza che Besso viene ovunque definito come persona la cui “sete di sapere [...] non conosce limiti”, un autentico divoratore di testi scientifici nei più diversi campi, uno spirito eclettico che cercava di “dominare tutto il sapere del suo tempo”(vedi P. Speziali, p. xxv), capace anche di produrre una propria originale ricerca scientifica. Mantenuti sempre legami per motivi di famiglia con l’Italia (quella del Nord Est in modo particolare), nella quale tornò del resto più volte, anche per non brevissimi periodi, nel corso della sua vita – che concluse poi nel 1955, a Ginevra, dopo essere ritornato per un lungo tempo a lavorare presso lo stesso Ufficio Brevetti di Berna che aveva visto la nascita del suo sodalizio con Einstein – sembra inverosimile che per i motivi dianzi richiamati il Besso non sia venuto a conoscenza delle idee e del lavoro di De Pretto, pubblicato nella sua stessa lingua, in una rivista certamente autorevole al tempo, e tanto più in quella regione d’Italia.
Ma c’è in effetti anche qualche altra circostanza ad aumentare la verosimiglianza di una conoscenza da parte di Besso della memoria di De Pretto. A guardar bene nei recessi della storia, si scopre infatti che Michele Besso restò sempre in particolare contatto con un proprio zio, Beniamino Besso, che viveva a Roma, ed addirittura ebbe ad ospitarlo in casa propria quando il nipote era un giovane studente dell’Università di quella città. Questo nuovo personaggio del nostro racconto, era interessato anch’egli a questioni scientifiche, sia pratiche che teoriche, e particolarmente di elettricità: di lui ci resta un libro su tale argomento, L’Elettricità e le sue Applicazioni (F.lli Treves Ed., Milano, 1871), ma esistono anche altri suoi libri su varie questioni, sempre di carattere scientifico, concernenti le grandi invenzioni, le macchine a vapore, le strade ferrate, etc.. A parte questo suo hobby per la scienza e per la tecnica, Beniamino Besso rivestiva a Roma la carica di Direttore delle Ferrovie Sarde. Orbene, faceva al tempo parte del Reale Ispettorato delle Strade Ferrate anche un altro finora non nominato fratello di Olinto De Pretto, l’ingegnere Augusto, che per motivi inerenti alla sua carica soggiornava anch’egli frequentemente a Roma. Augusto De Pretto, promosso successivamente Ispettore Superiore, fece anche parte dal 1907 del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Non ci vuole molta immaginazione per supporre allora che questi, grande estimatore dell’intelligenza speculativa del fratello, non avrà mancato di riferire ai colleghi, e quindi anche a Beniamino Besso, delle “folli” idee di Olinto, e da Beniamino (che morì nel 1908) a Michele il passo è invero breve, tenuto conto anche dei frequenti viaggi di quest’ultimo, e del suo amore per la corrispondenza: Besso intrecciò infatti relazioni con vari altri eminenti personaggi della scienza e della filosofia dell’epoca, quali H. Weyl, F. Gonseth, J. Piaget, F. Enriques, E. Schrödinger, R. Marcolongo, etc. – vedi ancora al riguardo P. Speziali – e non c’è da stupirsi se abbia continuato per iscritto o di persona a colloquiare con lo zio.
Tutto sommato, e tenuto conto che al tempo non erano molte in Italia le persone che si occupavano di simili questioni scientifiche, immaginare che Besso sapesse del lavoro di De Pretto, e che abbia riferito ad Einstein – forse dopo che il primo lavoro A era stato terminato, e tra l’altro con una sua personale partecipazione alla discussione del relativo contenuto, come abbiamo ricordato – la “pazzesca” supposizione dello scienziato di Schio, secondo il quale “in un chilogrammo di materia qualunque…”, non è davvero molto difficile, tanto più, come abbiamo già detto, che la forma matematica di una simile equazione si poteva già trovare almeno in embrione nel primo lavoro di Einstein sulla teoria della relatività.
Sciocchezze, penseranno certamente a questo punto i miei più ‘ortodossi’ lettori, confrontare la scienza precisa e matematica di Einstein con la ‘fantascienza’ qualitativa di un De Pretto è pura follia! Parere questo che non tiene però nel giusto conto il fatto che considerazioni ‘fantastiche’ e di tipo qualitativo sono sempre comunque presenti all’origine della ricerca anche la più rigorosa ed astratta possibile, e che non c’è niente quindi di veramente strano che sia stata proprio l’informazione sulle ‘fantasie’ del De Pretto ad aver fornito lo spunto al creatore della teoria della relatività per l’appendice del lavoro A. In B non si fa alcun cenno all’analoga equazione del De Pretto proprio perché in effetti questa è dedotta in modo assolutamente diverso, e per di più in un contesto teorico assolutamente antitetico a quello in cui si muoveva Einstein, vale a dire a partire proprio da quell’ipotesi dell’etere che il giovane fisico teorico stava allora cominciando a demolire. Questa circostanza potrebbe spiegare l’assoluta mancanza di citazioni anche nel secondo articolo ‘relativistico’ del fisico tedesco (che non formula neppure dediche o ringraziamenti), e si può ben comprendere come questi non avesse in verità alcun desiderio di riconoscere pubblicamente spunti tratti dall’opera di un oscuro scienziato, che non era neppure un fisico!, quando già ad esempio nei lavori del grande fisico-matematico francese Henri Poincaré, e da diversi anni, avrebbe potuto trovare una più prestigiosa e confessabile sorgente di intuizione.
Per concludere, ci sembra che ognuna delle circostanze da noi segnalate sia in grado di avvalorare la congettura qui espressa che uno spunto forse non marginale al lavoro B di Albert Einstein sia venuto, ancora per il tramite di Michele Besso come nel lavoro A, da un dimenticato uomo di scienza italiano, con il buffo effetto, vale la pena ripeterlo ancora una volta, che tale suggerimento veniva ad essere fornito ad Einstein da una serie di considerazioni teoretiche tutte assolutamente inaccettabili nella sua ottica, fondate com’erano su ipotesi relative alla struttura dell’etere, proprio quella elusiva “sostanza” che il lavoro di Einstein cercava al contrario di dichiarare “superflua”, e di eliminare quindi, cosa che poi di fatto avvenne, dal panorama della fisica.
Ammettiamo pure infine che, nel cercare di chiarire come nel ricostruire le fonti dell’ispirazione einsteiniana il lavoro di De Pretto possa a ragione essere considerato come una di queste – anche se più o meno diretta, e probabilmente non l’unica – il presente libro ha piuttosto allargato lo sfondo del lavoro di Einstein, piuttosto che oscurato una parte a favore di un’altra. In altri termini, che non si è qui rimpiazzata una tesi storiografica con un’altra opposta, ma che si è certo arricchito, con l’aggiunta di particolari forse non secondari, certo suggestivi, un quadro che in ogni caso si avrebbe torto a supporre molto semplice.
Resta il fatto comunque importante, per coloro interessati a questo tipo di “paradossi” della storia della scienza, che una formula considerata da tutti di tipo essenzialmente relativistico, e quindi non avente nulla a che fare apparentemente con la fisica dell’etere, fosse stata invece già proposta, pressoché identica in forma e possibili conseguenze fisiche, da un sostenitore della reale, “materiale” esistenza, e quindi dell’importanza ai fini delle scienze naturali, di questa sostanza, che è oggi cancellata, grazie principalmente proprio al contributo offerto da Einstein, dall’orizzonte della fisica, ma che è forse in attesa di ritornarvi (magari con un altro nome) con tutta la forza delle sue suggestioni metafisiche.
[1]Quest’espressione è stata già utilizzata nel capitolo 1, ed in quell’occasione ne è stata fornita la relativa fonte bibliografica.
[2] Che, naturalmente, nessuno degli storici di professione potrà trovare se nessuno di essi comincerà a cercarli.
[3] Per varie notizie sulla famiglia Besso si può utilmente consultare, in aggiunta al testo di P. Speziali citato nel capitolo 3, anche Alberto Caracciolo, “Una diaspora da Trieste: i Besso nell’Ottocento”, Quaderni Storici, 54, A. XVIII, N. 3, Dicembre 1983, pp. 898-912.
[4] Lo studio più approfondito sulle relazioni tra i due personaggi della nostra storia è senz’altro quello di P. Speziali, che abbiamo già avuto occasione di citare, ed al quale faremo spesso riferimento nel corso di questo capitolo.
[5] E si noti l’analogia con l’attività del padre di Einstein.
Continua…
Featured image, negativo della lastra di Arthur Eddington raffigurante l’eclisse solare del 1919, utilizzata per mettere alla prova la previsione di deviazione gravitazionale della luce.