Questa piccola sinossi dovrebbe bastare a spiegare perchè Dead man down non è un film ben riuscito, sebbene le premesse non fossero quelle di una storia un po’ scontata, per certi versi, e con dei colpi di scena inaspettati ma fuori luogo, per altri. Nel primo quarto del film, infatti, l’alone di mistero e di confusione che ruota attorno ai personaggi pare infondere un minimo di curiosità e disposizione ad aspettare pazientemente il primo turning point. Non mancano però alcune situazioni, come le sparatorie semi-gratuite e l’irruzione nella camera da letto del boss rivale, proprio nel momento dell’amplesso, che sembrano piazzate lì più per convenzione che per necessità e che abbassano di certo la soglia dell’attenzione. Il primo turning point, però, arriva: Beatrice, la dirimpettaia sfregiata, assiste a un omicidio in casa di Victor e propone a questi uno scambio: il suo silenzio in cambio di un favore. Lo stesso Victor dovrà vendicare lo sfregio che la ragazza ha subito in un incidente d’auto uccidendo il conducente, ubriaco.
L’alternanza di buoni spunti narrativi, segreti che emergono poco alla volta e rivelazioni tautologiche, come se la sceneggiatura fosse stata scritta un po’ con la mano destra e un po’ con la sinistra – come se fosse ciclotimica – sconcertano un po’. Dispiace infatti che una narrazione potenzialmente migliore, che poteva aspirare sena troppi complessi d’inferiorità al noir, precipiti in alcune voragini che nel finale conducono direttamente in una colata di magma informe. Banale è l’aggettivo più consono per Il sapore della vendetta, un agrodolce troppo dolce e melenso nel finale e troppo magro nella gratificare lo spettatore.
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Paolo Ottomano