"Dead man walking!” è l'espressione che usano comunemente i carcerieri americani per annunciare l'ultima passeggiata del condannato nei corridoi silenziosi del ramo della morte, diretto al patibolo. Un "uomo morto che cammina", a questo riduce la giustizia americana che infligge la condanna per mezzo di una tetra rappresentazione che ha per pubblico anche i familiari delle vittime dei delitti del giustiziato. Sul tema, che appassiona i paladini dei “civil rights” negli States, qualche anno fa, è stato realizzato un film dall’omonimo titolo. È, in effetti, un film costruito anche per creare un senso di disgusto, e un conseguente profondo disappunto, verso la pratica della pena di morte, contro la quale il regista Tim Robbins si batte da sempre, come attivista politico. Da sottolineare, in questo senso, anche la profonda critica alla società americana che emerge dalla vicenda del complice del protagonista giustiziato che, reo quanto il suo compagno, ha evitato la pena di morte potendosi permettere spese legali più elevate.
Per estensione, la definizione di “dead man walking” può riferirsi anche a quegli individui che, pur conoscendo il loro destino finale, vivono nell’apparente normalità di una quotidianità che sfugge loro fra le dita, come sabbia in una clessidra truccata. Molti sono quelli che si illudono di averla sfangata, ma la giustizia fa il suo inesorabile ed incontrastabile percorso sotterraneo. Quasi fosse un fiume carsico che appare e scompare fra le valli per sfociare nel mare. Le inchieste giudiziare hanno bisogno di maturare, si alimentano delle paure ma anche delle fallaci sicurezze di chi improvvidamente si sente al sicuro.
I giudici inquirenti sanno bene, invece, che le indagini non devono procedere con vorace velocità. Gli indagati - e quelli che potrebbero diventarli – vanno coccolati, quasi illusi. I tempi lenti delle indagini potrebbero apparire a qualche stolto credulone come il segnale di un disinteresse che giustificherebbe la loro fasulla tranquillità. Ma è proprio nei meandri di questa sonnacchiosa parvenza di tranquillità che si annida, invece, l’inesorabile procedere delle indagini. Molti, convinti di essere in salvo, allentano le difese immunitarie e sbracano in un impeto di gioia da pericolo scampato che li conduce, spesso, a fornire essi stessi nuove, e più pregnanti, notizie di reato a chi è sempre in religioso ascolto.
Capita, così, che l’ignaro e fiducioso industriale delle punte diamantate piuttosto che il grande corruttore di Pantografo-Pulito, ravvisino nel solito tran tran privo di segnali di attenzione, il viatico per un futuro più roseo che pria. Ma le indagini più articolate della nostra storia patria, ci hanno insegnato, fin dai tempi di Mani Pulite, che i filoni sono molteplici - e a tal punto intrecciati - che saltare dall’uno all’altro è un giochetto da bambini per gli inquirenti smaliziati. Il Grande Accusatore non ha la fregola di mettere sotto chiave le proprie vittime. Sa attendere e giocare, come il gatto indolente con il topo ribelle. Ogni tanto un’accelerazione, una svolta indagativa e poi, di nuovo, un lento ripiombare nel letargo attivo.
Quanta compassione provoca sapere che esistono attorno a noi, più o meno distanti, miriadi di “dead men walking” che, ignari della condanna che già pende sul proprio capo, continuano a nuotare in stagni dalle acque sempre più basse e maleodoranti. Mi sembra di vedere già la prossima pesca con le dimenanti trote che avendo abboccato da tempo all’esca, non riusciranno a liberarsi dell’amo che, con malizia, il furbo pescatore ha lasciato scivolare fin nel profondo dei loro ventri famelici.
Ciro Pastore – Il Signore degli Agnelli