Dear Old Mr. Ciak #1: Once, A Single Man, Il discorso del re, Tra le nuvole
Creato il 12 aprile 2015 da Mik_94
Buona
domenica a voi, amici, con una nuova rubrica che tanto nuova non è. Non mi piaceva, quando capitava di parlarvi
di un film uscito da più di qualche anno, inserirlo negli
stessi post con le novità al cinema o robe sconosciute, viste in rete coi
sottotitoli. All'occorrenza, insomma, il solito Mr. Ciak vi parlerà di “care e vecchie” conoscenze.
Per quando riguarderò cose che già conosco; o per quando, con lo spirito del rigattiere, pescherò dal cilindro (o dall'hard disk) film che mi ero perso. Si spera soprattutto cose belle.
[2006] Once
l'ho visto una volta sola; me l'ero fatta bastare. Allora lo avevo
trovato bellissimo senza sapere perché: quella bellezza che sfuggiva
alle descrizioni aveva una magia particolare, la stessa che pervade
questo minuscolo film, e temevo che potesse sparire a una visione
rinnovata. Certe emozioni sono un buona la prima, non è
destino si ripetano. Sarebbe troppo facile impacchettarle, chiuderle
sotto vuoto, respirarle quando se ne ha voglia. Sono passati nove anni, o così dice Internet. Il tempo necessario a rimuovere
tutti i dettagli della trama – soprattutto se, come in questo caso,
è esilissima – e a rinnovare le cartelle dell'iPod. Pezzi
imbarazzanti che spariscono, ma
canzoni che restano, come quella Falling Slowly che
è il leitmotiv del musical di John Carney e che si ricorda per gli
applausi scroscianti agli Oscar e i ripetuti tragitti casa-scuola. Ci
mettevo due canzoni e qualcosa per arrivare a destinazione. Ora non
le conto, devo camminare sotto un ponte lunghissimo e tenere le
orecchie aperte ché non si sa mai, ma quando le tracce partono c'è
un duetto piano-chitarra che non può mancare. Scettico davanti
all'avventura americana di Carney, ma soddisfatto anche da
Being Again,
commerciale ma non svenduto, avevo avuto voglia di rivedere Once e
poi non più. Finché l'ho beccato su uno di quei canali del digitale che non guarda nessuno, romantico e evocativo come lo
ricordavo. Io, a corto di
definizioni come la prima volta. Cos'ha di speciale Once
non saprei, ma ha qualcosa che incanta – nonostante un direttore
della fotografia latitante, un budget esiguo, attori vestiti come gli
andava quel giorno, l'immagine slavata da documentario. Sembra
vecchio, e lo sembrava già allora. D'altre epoche, d'altro mondo.
Non la Dublino dei turisti e della birra dorata. Una città
qualsiasi, due persone qualsiasi, per una storia che nasce con la
musica e non finisce. Glen Hansard e Marketa Irglova camminano spalla a spalla, si aprono in due il cuore
davanti a un pianoforte, vanno a zonzo con la chitarra in spalla e
una aspirapolvere scassata al guinzaglio. Lui, aggiustatutto col
cuore che non si aggiusta e il sogno della fama. Lei, immigrata con
un matrimonio in forse e lavoretti salturi. Potresti incontrarli
duranta una passeggiata in una grande città. Chi suona per strada,
chi vende rose. Dura pochissimo e quando finisce gli occhi sono
lucidi senza apparente motivo e l'iPod peserà di una dozzina di
splendide canzoni in più. Quel ragazzo e quella ragazza sprovvisti
di un nome di battesimo si cantano in faccia i loro sentimenti –
amori distanti che poi arrivano a coincidere, gettando le fondamenta
invisibili del loro invisibile amore – e vivono grazie alla musica
una delle storie più toccanti degli ultimi anni, nonostante ci sia
il sentimento e manchi tutto il resto. Un futuro insieme, un numero
di telefono, perfino un bacio. Ma forse è toccante per quello: il
cantarsi timidamente l'incoffessabile con la purezza, e le voci, che hanno gli angeli. (8)
[2009] Colin Firth, vittorioso a Venezia, ambiva alla statuetta per il Miglior Attore.
Era il tempo in cui non mi prendevo la briga di fare le ore piccole
per dare un'occhiata, prima della cerimonia, alle pellicole in lizza
e in cui il radical chic era l'equivalente di un grosso segnale di
pericolo. Evitavo certi film, pensando non fossero cosa mia. E non
sono tutt'ora cosa mia, ma il melodramma di Tom Ford declinato
interamente al maschile, col suo suggestivo sposalizio di autorialità
e rigorismo, ha fascino - prima volta al cinema di uno
stilista di fama mondiale, indiscusso arbiter elegantiae anche per il
profano che fa spesa da H&M. Arriva
all'anima, e soprattutto agli occhi, attraverso il canale a senso
unico dell'eleganza. La storia di George, professore gay di mezza età
nella Los Angeles dei primi anni '60, è quella di un uomo solo. Di
un vedovo nel cuore che si trascina tra lavoro e vita privata,
sfiorando cupi pensieri suicidi e richiamando, con incubi in bianco e nero, l'inizio e l'epilogo della sua storia d'amore. Si sono voluti bene per sedici anni, nella
loro casa di vetro da falsi scapoli. Quando Jim è morto, George non ha raccontato a nessuno, se non alla sua
migliore amica, lo strazio immane di quella perdita clandestina.
Erano gli anni della Guerra Fredda, dei cartelloni che
pubblicizzavano Psycho
e degli aspiranti sosia di James Dean, ma ci si preoccupava di dare
un senso all'amore. Firth, con il suo classico aplomb britannico e
un'incredibile somiglianza col nostro Mastroianni, bravissimo per me
lo è sempre, ma qui di più. Completi scuri d'alta sartoria e un
film intero cucito addosso, in cui si muove con lo sguardo appannato
ora dal pianto, ora dal desiderio, e una pistola carica a portata di
mano. Rigido, serio, colto si specchia in una trama che assume per
osmosi le sue movenze. A Single Man
è così, impeccabile ma trattenuto. Si piange addosso solo in una
delle prime sequenze, dopo una chiamata che stronca una vita, ma
sarebbe una blasfemia dire che non comunica anche a modo suo, col
controllo di chi vorrebbe confessarti la sua perdita, ma non può. E
incorniciati ad hoc risultano più avvenenti del solito la
meravigliosa Julianne Moore, che ha un ruolo breve ma significativo;
il giovane Nicholas Hoult, con gli occhi di un azzurro irreale e i
tratti scultorei; Matthew Goode, visto sempre qui e lì, ma mai colto
impreparato. Le mascelle volitive, le labbra carnose, bellezza
semplice e senza inganno, messe in risalto come in pittura. Il nudo,
eroico, mostrato con una virilità davvero poco queer, dunque
inattesa. Ford, con una fotografia languida e scene acquose,
colpisce per lo splendore formale che va ricercando nei dettagli più
minuti, mentre con voce spezzata ti racconta il più crudele e nudo
dei dolori. Quello che, spaventosamente universale, è vietato svelare. (7,5)
[2010] Come
dimenticare la vittoria del Discorso del re
che, qualche anno fa, con parecchio sgomento, aveva
sbaragliato una concorrenza di tutto rispetto?
Alcuni rosicano ancora. Quella che per pigrizia non avevo seguito con
l'hype degli ultimi tempi era stata un'annata fortunata: ricordo che
c'erano, sul tappeto rosso, esempi di grande
cinema, anche se, qualora qualcuno mi avesse chiesto una preferenza,
non avrei nascosto il mio entusiasmo per le ballerine folli di
Aronofsky. Immancabile, sul podio, il piccolo film in
costume. Quest'anno c'era The Imitation Game; quell'anno il più fortunato dramma di Tom Hooper. Il vincitore
che ha preso tutto: ha impugnato lo scettro e indossato la
corona del Miglior Film. Il discorso del re è
una rigorosa commedia british, vicina ai gusti dello
spettatore medio e alle preferenze dell'Academy. Ineccepibile e aristocratica,
anche se la vicenda del Duca di York, in tempo di guerra e di abdicazione, sa suscitare qualche risata che non ne intacca la sobrietà. Mi è piaciuto. E' dalla parte del popolo ed è di cuore, alla faccia della pellicola d'autore e di reali che non
mostrano bontà in pubblico. Però le nominations
erano tante e le quattro vittorie troppe. Resta una deliziosa
ricostruzione storica senza un comprimario e un dialogo fuori posto,
che ha tutta l'aria del polpettone sulla Grande Guerra e
un'inaspettata frivolezza. Déjà vu con il successo
inspiegato di Shakespeare In Love.
Godibile, confezionato con maestria, ma similmente
sopravvalutato. Il dato è tratto, inutile piangere sull'Oscar
assegnato e impossibile odiarlo. Gli si vuole bene. Si storce il naso nella parte
conclusiva, quando un'altra guerra sta per scoppiare e a palazzo ci
si preoccupa più di dizione che di questioni di Stato. Un po' come se fuori la gente chiedesse il pane e
dentro il sovrano facesse colazione coi cornetti, come disse qualcun altro. Ma Il
discorso del re è un prima, il
tempo delle lotte di tutti i giorni e sì, anche dei croissant; termina con un lieto fine, prima che il mostro Hitler –
con i suoi soldati e i suoi discorsi alla massa senza balbettii –
glielo rovini. Colin Firth, con tutta la sicurezza con cui è
possibile essere insicuri, è claudicante nel parlare e fragile in maniera convincente. Sua sposa fedele, una Helena Bonham Carter
che quando non fa l'idiota è assai capace.
Suo allenatore, amico e psicologo-fai-da-te, un Geoffrey Rush al di sopra dei colleghi: spinge il futuro Giorgio VI a
canticchiare e a coniare parolacce per superare l'incertezza e nel
suo studio, quello con i muri scrostati e spogli che ricordano la
piattezza dei fondali teatrali, la macchina da presa dà il
meglio e il mestiere dell'istrione si fa ammirare. (7)
[2009] Un
protagonista che colleziona miglia e teste per un'altra commedia
d'autore che, sempre agli Oscar, con un numero sproporzionato di
candidature, si era fatta notare. Quando i film selezionati non
sembravano dovere durare per forza dieci ore, la giuria era meno snob, i capricci sentimentali del divo brizzolato facevano
sognare le casalinghe. L'era d'oro di Reitman jr. che poco
prima aveva lanciato Ellen Page in una commedia indie che è già cult.
Ora, meno irriverente e pubblicizzato, trova fredda accoglienza
all'estero, ma non ci fa scordare che resta sempre in
gamba. In Tra le nuvole sembra un Cameron Crowe piacevolmente
imbastardito: dirige una commedia romantica, infatti, che parla del
più cinico degli amori. Quello verso sé stessi: il solo a
non darci buca. La regia è convenzionale, ma lui ha una
cifra stilistica inconfondibile che si nota in uno script arguto
e nella semplicità delle intenzioni, elevate grazie a un cast
ottimo e a dialoghi che sono il segreto di tanto
successo. La trama, solita ma con
un retrogusto che turba, segue le vicende di un
cinquantenne che non sta fermo. Vive a cavallo dei fusi orari e per il senso di stordimento da jet lag. Lui è quello che,
in periodo di crisi, ha licenziato una persona che conosci. Quando l'avvento della modernità
minaccia di di renderlo finalmente
sedentario, che sarà della sua
voglia di vivere sospeso in eterno, nel blu dipinto di blu? La
rivelazione Anna Kendrick, squalo in erba, già allora
spiccava per quella simpatia che adesso l'ha resa richiestissima. Vera Farmiga, quarantenne di un altro pianeta, sbocciava piano e in ritardo: Reitman l'ha
aiutata. Insieme a lei – coppia di romantici coi giorni contati, cuori in scadenza – il George Clooney di cinque anni fa, lo scapolo
ambitissimo, con la
maturità che ha trovato da poco. Si sa che i film e le
sceneggiature, se brillanti, accorciano i tempi. E che le
stanze vuote sul lago di Como, se viaggi in solitaria, non si
riempiono come per magia. Lui, che mi sta mortalmente antipatico
nella vita vera, qui dovrebbe fare altrettanto, e avrebbe davvero il
gioco facile, ma il suo vagante Ryan Bingham – sincero come uno mai si aspetterebbe – suscita qualcosa che somiglia all'empatia. A volte, se ti
fermassi a pensare a cosa ti rimarrebbe, a chi ci sarebbe per te, ecco... sarebbe la fine. Hai presente la sensazione? Perciò fa' una valigia e via; parti. Vola
sul mondo. Senti le lancette scorrere, e ignora: rimanda. Sii passeggero della tua vita, come in Iggy Pop. (7)
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