Aldo Formosa è giornalista professionista, realizzatore di manifestazioni ed eventi culturali. Si occupa di teatro come commediografo e come regista. Collabora con periodici, con la “Sicilia” e il “Corriere dello sport” ed è titolare della pagina culturale “Astrolabio” sul quotidiano “Libertà”.
Ha appena pubblicato, per i tipi di Lombardi editore, i racconti “Decamerone a Siracusa”.
Di seguito, la recensione/intervista di Simona Lo Iacono.
* * *
ALDO FORMOSA E IL SUO DECAMERONE SIRACUSANO
di Simona Lo Iacono
Specie sul crinale di certe sere che indulgono alla malinconia. O quando la voglia di raccontare non si assopisce nonostante alcune batoste buone assestate da circostanze e uomini, da quelle impennate della vita che ti fanno pensare che, alla fine, l’unico luogo che resta, l’unica scena, l’unico perdono, è quello delle storie.
Così ti metti a raccontare, inizialmente per assopire l’anima, i calci del cuore.
Poi per tacitare i fantasmi pian piano chiamati a raccolta, per consegnare un lascito, o forse una carezza amara, incipiente. Per interrogarli anche, e strappar loro un frammento almeno del mistero che siamo.
Così fa Aldo Formosa – nella foto – nel suo “Decamerone a Siracusa” (Lombardi editore). Dieci racconti siciliani, di quella Sicilia che non è mai soltanto terra ma, appunto, memoria, convitto di ombre venute su da anfratti, le gole del tempo che di tanto in tanto hanno un vorticoso cambiamento di rotta. E ti vengono innanzi, invece di marciare indietro.
Ma Aldo è bravissimo ad afferrarle, ad arrestare il loro percorso, a tener dietro alla corsa e a chiedere licenza. “Fermatevi”, sembra dire, ma non è un comando, piuttosto il richiamo di chi ormai ha dimestichezza con il capriccio delle ore e sa che per arrestarne i voli, non c’è che un modo: pregarle di restare.
Così, si fermano le dieci ombre, e intonano su Aldo, con Aldo, e per Aldo, un cherubinante canto di sirene.
Ed ecco. L’idroscalo, la Plaia, Ortigia, la fonte Ciane. Il giradischi che gratta di nero la puntina, i balli su corpi che scalpitano, che urlano una feroce ansia di sentirsi vivi, di amare e sentirsi amati. O i tradimenti, le delusioni, come quella di Tatài che spasimava per Ciccina ma a quella “manco per la testa le passava”. O la guerra che scoppia improvvisa sui gabbiani bombardando l’aria, sparpagliandoli con guaito di sangue. E, ancora, le cene di Samantha, i vaporosi profumi di cibo e umori, l’essere donna tra peperonate che ammalorano le notti.
Aldo Formosa rapisce gli anni, da’ sapore al tempo, alle voglie, ai libecciosi venti che spazzano Siracusa. E’ un sapiente domatore di destini, un poetico e commosso incantatore di fantasmi. Nel raccoglierseli torno torno non li tratta con il distacco di chi ha imparato a vivere. Semmai, con la perplessa intimità di chi sa trascendere la notte, valicare le distanze, e intrattenersi con loro.
Aldo, ci parli di questi dieci fantasmi venuti su dalla sua memoria.
Parlando rischierei forse di deformarne le fattezze. Sono arrivati a mia insaputa, mi hanno assediato, l’indice puntato: e io, un amanuense. Diciamo “partenogenesi”.
I suoi racconti raccolgono un’eredità umanissima e vibrante di luoghi. Questi luoghi, come sono cambiati? Come ci hanno cambiato?
Su uomini e pietre scorre quell’artifizio chiamato “tempo”. Non sono un moralista, ma queste calamitose giornate hanno il ghigno feroce dell’imbarbarimento. Ben oltre le luminarie, anche i luoghi cambiano in peggio come l’uomo cambia perché non ha più il culto delle memorie.
E le donne. Tutte stuzzicanti, ma anche sognose, morbide al tatto. La sua scrittura risveglia i cinque sensi. Fa toccare, sentire, vedere, gustare. Che rapporto c’è, a suo avviso, tra narrazione e percezione?
Le donne? “La” donna, piuttosto. E non tanto per il mistero che custodisce sotto quel suo sgonnellare, ma per il mistero che sorride nei toni della sua voce, nel suo pensiero, nelle sue parole criptiche, nel suo essere che si specchia nel non essere, nell’immaginarla perché lontana e irraggiungibile. Ma quando possiede sensibilità, intelligenza , cultura e venustà (improbabile il miracolo di queste deità insieme nella stessa persona) la miscela provoca l’esplosiva scintilla dell’innamoramento. Tra narrazione e percezione? Come tra la veglia e il sogno. Così sono arrivate, inattese, sul tappeto volante dell’inconscio.
La voglia di aquiloni. Quella finale confessione che rapisce il cuore. Un volo di carta, in qualche modo. Così simile alla metafora della pagina scritta. Alle sue ali. Perché ama gli aquiloni?
Come non amarli? Basta un refolo di vento perché s’impennino alti nel cielo del voler essere qualcos’altro, trattenuti dal filo dell’incertezza, nell’ansietà cocente di un volo capace di rinsanguarti le vene. E quello del libro è il mio grido perché qualcuno ascolti.
E, infine, ci farà altri regali? Altri dieci gioielli come questi?
Come non ho programmato questi dieci, e non sapevo che li avrei scritti, non so se e quando ne scriverò ancora. So per certo che dovrei prima vivere una forte emozione che mi scaldi il cuore. Se scrivessi “a freddo” mi sentirei un burocrate.