invece sono sopravvissuta.
nonostante i singhiozzi soffocati in pubblico ieri sera,
nonostante l'assenza del respiro,
l'insonnia,
le allucinazioni ossessive sull'onda di un'empatia terrorizzata
e intollerabile.
mi sono tenuta lontana da quella madre che non conosco,
dal padre, dalla sorella, sopravvissuti anche loro,
molto più di me,
non so come.
ho abbracciato lo zio,
il mio amico che gli voglio bene,
così infelice ora,
incapace di dire parola,
e mi sono vergognata
perché in quell'abbraccio era lui che consolava me,
stravolta.
ho cercato di non guardare nessuno dentro quella chiesa
perché incrociare lacrime avrebbe rotto anche l'ultimo argine del mio decoro,
se di decoro si può parlare.
e ho evitato tutti gli altri bambini riuniti lì dentro
a salutare la loro compagna,
ché io non li volevo intuire i miei figli in quelle facce spaesate.
i miei figli lontani, altrove, salvi,
questa volta.
egoista per forza.
e ho ascoltato le parole del prete,
le parole che sono il suo dovere
e la sua fede,
e ho sperato che loro, là stretti in prima fila,
potessero accettarle, crederci, trarne conforto,
se non oggi, domani.
ho sperato che ce l'avessero la fede, loro,
perché è forse l'unica salvezza
se il male ti travolge in questo modo.
forse.
a me resterebbe, invece, solo l'abisso.
lo so.